Otto montagne

C’è un libro che dovete leggere, se non l’avete ancora fatto. La maggior parte dei libri che ho letto nella mia vita, li ho presi in biblioteca, perché se avessi dovuto acquistarli a questo punto avrei una casa con i muri fatti di volumi, talmente tanti sono i titoli che ho “divorato”. Raramente cerco un libro sulla base di recensioni, di solito mi affido al caso. Vado allo scaffale dei nuovi arrivi e mi lascio ispirare da qualcosa, una frase nella quarta di copertina, un titolo, la copertina stessa. Con “Le otto montagne” di Paolo Cognetti pensavo di leggere un romanzo “di montagna”.

Non pensavo però di trovare la “montagna” nell’accezione di chi vi sale in alpeggio con il bestiame. Montagna intesa come alpeggio, “lui la chiama così“, dice uno dei protagonisti. Ho letto le recensioni solo una volta terminata la lettura di questo meraviglioso libro, scritto con uno stile scorrevole, in grado di far rivivere (specialmente a chi la montagna la conosce bene) sensazioni, paesaggi, suoni, rumori e persino odori. Ero lì durante la mungitura, vedevo i momenti della lavorazione del latte, guardavo con tristezza l’alpeggio vuoto e abbandonato, le baite crollate, sentivo i campanacci.

Le recensioni sono tutte positive e al suo Autore, quasi mio coscritto, hanno portato un meritato successo. I posti di cui parla mi sono meno famigliari di altri, ma mi sembrava comunque di conoscerli. Ho poi cercato on-line i riferimenti ed ho scoperto di essere stata in alcuni di quei luighi, ma ho solo sfiorato il vallone in cui è ambientato il cuore del romanzo. Però non è quello il punto: in questa o in quella valle, io mi ci ritrovavo a camminare per quel sentiero. Vivevo il cambiamento delle stagioni, la transumanza verso l’alpeggio, i pascoli che via via vengono mangiati, l’ora speciale della sera, la mia preferita quando ero lassù, quella in cui il tempo si dilata, i suoni sono più profondi, c’è una pace che non ho mai ritrovato altrove.

Anche i protagonisti mi pareva già di averli incontrati, per lo meno quelli della montagna. Prevedevo le loro risposte, i loro comportamenti, il loro attaccamento a quelle baite, agli animali, al lavoro, ai luoghi di origine. Chi scrive le recensioni parla del rapporto padre-figlio, parla della montagna intesa come territorio, come scuola di vita, come luogo in cui ci si confronta con sé stessi meglio che non altrove. Tutto vero, e l’Autore è molto bravo a tratteggiare i suoi personaggi, il loro carattere, i conflitti interiori, la trama del romanzo.

Ma io mi sono soprattutto lasciata trasportare lassù (il lago non è questo, ma è poco lontano…) nelle quattro stagioni, specialmente quella estiva e quella autunnale, la salita in alpeggio quando ormai è tutto pascolato, bruciato dal gelo, con le fiamme dorate dei larici. L’aria che cambia dopo quel certo temporale, i raggi che si fanno obliqui… Certe descrizioni sono identiche nei miei occhi, nei miei ricordi, forse le ho già riportate da qualche parte anche nei miei libri o su queste pagine virtuali. Chi ha scritto “Le otto montagne”, la montagna la conosce bene, l’ha vissuta. Non è solo opera di fantasia, questo romanzo, ma… anche senza conoscere l’Autore, posso immaginare che nelle pagine della sua opera ci siano tante ore spese lassù, nella montagna dei pascoli, in quella del bosco e pure in quella più altra, delle pietraie e dei nevai.

Molte volte i libri “di montagna” hanno come protagonisti quelli che “vanno” in montagna. Qui invece c’è chi la abita chi la vive, chi cerca di resistere, chi vuole riportare in vita l’alpeggio abbandonato, sfalciare e pascolare i prati che altrimenti verrebbero invasi di cespugli e alberi.

Eccolo il torrente lungo cui giocavano i protagonisti, da bambini, torrente che cambierà, che si ingrosserà con le alluvioni, che verrà sfruttato dall’uomo per produrre energia. Ma che, in alto, continuerà a scorrere in mezzo a pascoli e rocce. Anche nel libro c’è qualche capra, che pascola incustodita alle alte quote… C’è la vita dell’alpe ritratta nella sua cruda realtà, senza eccessi di poesia. C’è il margaro che nasce con quella “malattia” e non potrà mai lasciare quel suo mondo, la sua montagna.

Leggete “Le otto montagne”, non rimarrete delusi. Scorre fluido come il torrente lungo il quale salirete e ridiscenderete molte volte con i protagonisti. E’ una bella storia, dura e spigolosa come i montanari, una storia che emoziona più volte, dall’inizio alla fine. Una storia che mi ha fatto riflettere anche su vicende personali. Una storia di territorio e radici, ma anche di valori antichi.  A me ha lasciato dentro un senso di malinconico struggimento, ma anche una gran voglia di andare a vedere quel vallone. Non chiedetemi dov’è… leggete il libro e provate anche voi a scoprirlo!

Cosa ne pensate delle piste?

Il post di oggi nasce sotto lo stimolo delle riflessioni di alcuni amici che, casualmente e senza conoscersi tra di loro, mi hanno scritto chiedendomi sia il mio punto di vista sia, più ampiamente, quello delle persone che, come loro, seguono questo blog (allevatori, appassionati di montagna, curiosi). L’argomento è quello delle piste agro-silvo-pastorali, in particolare quelle che raggiungono gli alpeggi. Forse ne ho già parlato in passato, ma riprendo volentieri la questione e vi sottoporrò anche un sondaggio.

(Val di Susa)

Avendo io frequentato la montagna sotto diversi aspetti (come semplice turista/escursionista/ciclista, ma avendo anche vissuto la vita d’alpeggio), proverò a dirvi cosa ne penso. In linea di massima sono favorevole alle piste che raggiungono gli alpeggi. Però… c’è una serie di considerazioni da fare, perché il discorso non può essere semplicemente liquidato con un sì o un no.

(Val Pellice)

(Val Pellice)

Prima di continuare con il mio punto di vista, vi inviterei a leggere, sul blog dei Camoscibianchi, la posizione di Werner Bätzing, un’analisi approfondita sulla situazione nelle Valli di Lanzo. “Per una gestione moderna e durevole delle Valli di Lanzo è necessario e irrinunciabile che frazioni, alpeggi e boschi siano raggiungibili con autoveicoli e piste, ma ciò non significa che, per questo motivo, ogni nuova pista agrosilvopastorale debba per forza essere costruita.” Condivido questo punto di vista, perché è inutile realizzare opere faraoniche, spesso anche mal fatte, laddove non ve ne sia la necessità o dove queste piste servono solo per “depredare” il territorio, senza portare alcun beneficio.

(Bassa Engadina)

(Bassa Engadina)

Non è detto che la pista debba per forza deturpare l’ambiente. Ovviamente, nel momento della sua realizzazione questa sarà una “ferita” nel paesaggio, ma occorre distinguere tra lavori ben fatti e scempi che permangono anche a distanza di anni. Il lavoro deve prevedere non soltanto la tracciatura del percorso, ma anche la manutenzione e la rinaturalizzazione del territorio circostante, con apposite opere.

(Madonna di Campiglio)

(Madonna di Campiglio)

Inutile tracciare delle “autostrade”: una pista che sale ad un alpeggio non sarà una strada trafficata. Anzi, a mio parere queste opere devono essere chiuse ai non aventi diritto (come peraltro già accade nella maggior parte dei casi). La pista serve a chi deve recarsi in alpeggio per lavoro, per portare o andare a prendere materiali, ecc. Verrà utilizzata anche dagli escursionisti a piedi e da chi pratica la mountain-bike. Nella documento che vi ho indicato prima, si parla della perdita/distruzione degli antichi percorsi preesistenti nel momento in cui vengono realizzate le piste.

(Val Pellice)

(Val Pellice)

E’ vero, questo talvolta accade, anche perchè è inevitabile intersecare sentieri e mulattiere, però altre volte le antiche e le nuove vie hanno esigenze diverse di raggio e di pendenza, quindi si possono mantenere anche gli antichi percorsi. Sta poi al pubblico degli escursionisti scegliere quale seguire. Mi è già successo di vedere che, nel momento in cui c’è la pista, il sentiero viene quasi totalmente abbandonato, anche qualora sia stato mantenuto intatto.

(Engadina)

(Engadina)

Le piste “si vedono da lontano”. E’ vero, anche se ben fatte, specialmente nel primi anni, il loro tracciato può essere individuato anche a distanza. Lo ripeto, bisogna farle bene, senza che siano degli squarci nella montagna. Poi anche una strada asfaltata può divenire parte del paesaggio alpino. Non mi dite che non siete mai saliti in auto ad uno dei tanti passi alpini che ci permettono di passare in Francia, o non sognate guardando in TV i tornanti su cui si inerpicano i ciclisti durante il Giro d’Italia o il Tour de France.

(Val d'Aosta)

(Val d’Aosta)

Certo, potreste anche dire che quelle strade ormai ci sono e non occorre aprirne altre. Che i valloni “incontaminati” devono restare tali. Vero? Falso? Pensate all’ambiente o pensate a voi stessi quando fate un’affermazione di questo tipo? Salite sempre a piedi in montagna, o dove c’è una strada percorribile la utilizzate per avvicinarvi il più possibile alla partenza per la vostra meta?

(Valli di Lanzo)

(Valli di Lanzo)

Riporto ora la testimonianza di una delle persone che mi hanno stimolato queste riflessioni. Così scrive Gianni: “Avendo io vissuto l’infanzia in una frazione di montagna dove portavo gli zoccoli, per andare all’asilo ed a scuola mi facevo più di mezz’ora di mulattiera ripida, per lavarmi la faccia dovevo andare a prendere l’acqua alla fontana con i secchielli agganciati sul bastone a spalla, con la gerla portavo legna, erba, fieno e letame, sapevo mungere la mucca e le pecore ed ero molto in difficoltà con i miei compagni che giù in paese già andavano tranquillamente in bicicletta, mentre io sempre a piedi e quando finalmente dopo tante traversie anche alla mia frazione è giunta una pista, la nostra vita è decisamente cambiata in meglio. La pista era stata fatta bene e con i dovuti criteri poiché se non era così i montanari (cervello fino) non avrebbero mai accettato lavori improvvisati.
Trovo pertanto poco democratico il no assoluto ed intransigente contro le iniziative di miglioramento, avanzato da chi vorrebbe quelle zone destinate solo ed esclusivamente alla contemplazione ambientale, quale sfogo saltuario di evasione dalla città.

(Val Pellice)

(Val Pellice)

Sì alle piste fatte bene, piste fatte seguendo criteri ben precisi, piste utili, piste realizzate e utilizzate con buon senso. Potreste anche obiettare che le priorità sono altre, che vi sono migliaia di persone che abitano in luoghi dove la viabilità è danneggiata, strade a rischio di frane, strade crivellate dalle buche, che vengono percorse quotidianamente, mentre una pista per un alpeggio serve al massimo un paio di famiglie per pochi mesi all’anno. E’ vero, ma secondo me entrambe le cose sono necessarie, una non deve annullare l’altra. Prima di chiedervi il vostro punto di vista con un sondaggio, voglio ancora farvi riflettere su alcuni aspetti della vita d’alpeggio.

(Val Pellice)

(Val Pellice)

Non possiamo pretendere che nelle “terre alte”, molto alte in questo caso, si debba per forza continuare a vivere come uno o due secoli fa. Il mondo è cambiato, chi siamo noi per decidere che qualcuno invece debba rimanere indietro perché a noi non piacciono le piste? E poi comunque sono cambiate anche le esigenze e le modalità lavorative anche di chi pratica questo antico mestiere.

(Val Pellice)

(Val Pellice)

Non si può più scendere con il mulo, le tome e il burro nelle gerle come un tempo, l’asl avrebbe qualcosa da ridire in proposito! Asini e muli si usano ancora dove la strada non c’è per il giorno della transumanza, ma capirete anche voi che non possono sostituire completamente il bagagliaio di un fuoristrada. Poi oggigiorno anche il margaro o il pastore in alpeggio devono poter scendere in giornata, vuoi per motivi burocratici, vuoi per altre incombenze che cento anni fa non esistevano.

(Val Pellice)

(Val Pellice)

Può essere pittoresca una scena del genere, ma i diretti interessati ne farebbero anche a meno, se possibile. Pensate poi se quella transumanza avesse dovuto aver luogo in un giorno di maltempo! Le cose da portare in alpeggio e da riportare a valle a fine stagione sono molte, legate al mestiere e alla vita quotidiana dell’allevatore e della sua famiglia.

(Val Chiusella)

(Val Chiusella)

Già, la famiglia… Un tempo si saliva ad inizio stagione e si scendeva in autunno, uomini e bestie, tutti insieme. Oggi ci sono allevatori con mogli che fanno un altro mestiere e che raggiungono i mariti solo nel fine settimana. Salgono portando viveri freschi, vestiti puliti, le auto stipate di tutto quel che serve. Se non si può fare diversamente, ci si adatta e ci si sacrifica, ma ben venga la possibilità di fare una vita un leggermente migliore. Se si hanno dei figli giovani, magari hanno anche voglia di scendere una sera e incontrare gli amici, una volta terminati i lavori. Non pensiate che chi fa l’allevatore sia solo un sognatore filosofo votato alla solitudine, che tragga soddisfazioni sufficienti dallo stare con gli animali e dagli splendidi scenari che l’alpeggio offre!

(Val Chiusella)

(Val Chiusella)

Le piste servono a portare le attrezzature di cui non si può fare a meno: fili, picchetti e batterie, reti per le pecore, sale, cibo per i cani. Una volta come si faceva? Una volta c’erano meno animali, più gente e si lavorava diversamente. Provate a pensare che, al posto del filo e dei picchetti, c’erano anche bambini piccoli che andavano da soli al pascolo degli animali con un tozzo di pane duro in tasca o una fetta di polenta da far durare fino a sera.

(Val d'Aosta)

(Val d’Aosta)

Ci saranno alpeggi dove probabilmente mai verrà costruita una strada: perchè utilizzati per poche settimane all’anno, perchè lassù non si munge e caseifica, perchè tanto non c’è una famiglia, ma solo un operaio che sorveglia gli animali. Certi alpeggi verranno abbandonati, perchè non c’è la strada. E’ già successo: nei valloni più impervi, alle quote maggiori, vi sarà capitato di vedere alpeggi crollati e pascoli non più utilizzati.

(Valle Stura)

(Valle Stura)

Oppure, mancando una pista, quelle montagne verranno caricate con animali in asciutta, manze, vacche con vitelli lasciati incustoditi o soggetti a sorveglianza saltuaria da parte dell’allevatore o di un suo incaricato. Certamente, se viene realizzata una pista di servizio per l’alpeggio e se questo è comunale, il Comune può mettere nei regolamenti clausole ben precise, per esempio riguardo la manutenzione dei pascoli, il loro utilizzo, l’attività di caseificazione e così via. Insomma, richiedere che la montagna venga gestita opportunamente, sia una risorsa di cui può beneficiare anche il turista.

(Val d'Aosta)

(Val d’Aosta)

Ci saranno irriducibili che continueranno ad alpeggiare anche laddove non ci sono le strade, specialmente con greggi, come si è sempre fatto. Non che loro non abbiano esigenze, ma si sacrificheranno. Magari c’è anche qualche allevatore che preferisce così, quindi in quel caso il problema non si pone  e saranno tutti contenti, gli ambientalisti, i turisti, i pastori. Ma quanti ne conosciamo, di questi casi?

Ecco infine il sondaggio, potete dare risposte multiple. E’ solo un modo per capire come la pensate, poi ovviamente potete commentare sotto l’articolo per esprimere in maniera più approfondita le vostre opinioni.

Come una volta, ma fino a quando?

Devo ancora completare il racconto delle mie giornate (ed incontri) nel Nord Piemonte. Prima di rientrare a casa, ero passata da una delle tante piccole aziende tradizionali che ci sono a Trasquera. Gli animali sono lì, appena sopra alla strada, poi esce Marina.

Ha un sacco con del pane e la prima ad accorrere è una coppia di pecore vallesane. Il villaggio è praticamente deserto, ma si vedono e sentono animali al pascolo un po’ ovunque.

Dopo arrivano le capre, che stavano brucando un po’ più in alto. Ci sono delle Vallesane e delle Sempione, queste ultime (bianche a pelo lungo) molto rare, si tratta di una razza quasi estinta. “Qui capre ce ne sono sempre state, prima di me le aveva mia mamma, mia nonna, abbiamo sempre avuto le vallesane. Il nonno, il bisnonno, tutti avevano capre. Lavorando, per me è un hobby. Vado a lavorare in Svizzera, il confine è poco lontano, qui tanti vanno a lavorare fuori. Qui c’è solo un’azienda che ne ha più di cento (non vallesane), loro lo fanno per mestiere, tutti gli altri invece fanno altri lavori. Si tengono più che altro per passione.

Adesso le metto in stalla di sera, perché stanno per partorire, altrimenti le tengo dentro solo se nevica, al massimo stanno in stalla due mesi. In estate le tengo giù fino ad agosto, perché le mungo, poi le metto su in alto, ma vado una volta alla settimana a vederle, altrimenti vengono troppo selvatiche. Aumentasse la presenza del lupo… come si fa? Non si può pascolarle con le reti, d’estate fossero giù come adesso che girano tra le case, la gente si lamenterebbe, ma comunque il lupo, se c’è, arriva anche qui, non è che non viene perché ci sono le case.

Marina mi spiega che la frazione è abitata da 11 persone, sono tre famiglie, tutti parenti, nessuno si lamenta per gli animali che girano tra le case. Una gestione diversa sarebbe impensabile: così tutto funziona, sia per il tempo da dedicare agli animali, sia per il loro benessere. La presenza stabile del lupo farebbe scomparire interamente questa realtà. “I giovani non hanno più tanto la passione, i più giovani sono quelli della mia età, i giovanissimi no, perché non è un mestiere redditizio. Forse se lo fai con tante, ma devi proprio avere l’azienda, attrezzarti, fare spese. Siamo duecento persone in tutto il comune. L’Associazione degli allevatori ha 15 aziende, ci sono anche allevatori di Varzo, l’abbiamo fatta per gestire i soldi che il Comune ci da per organizzare la festa che facciamo ad ottobre.

Prima di lasciare Trasquera, incontro ancora altri animali che si spostano liberi tra le case. Sembra che ogni gregge abbia un suo territorio e non vada a mescolarsi con gli altri. Si sentono campanelle un po’ ovunque.

Nei prati (allora ancora senza neve), c’è qualcuno che sta rastrellando foglie. E’ Simona, anche lei alleva capre, ma le sue non sono nè quelle che ho incontrato sulla strada, nè quelle che si vedono più a valle. Il paesaggio, grazie alla presenza di tutti questi appassionati allevatori, è bello, pulito, curato. Prati sfalciati, poi pascolati, concimati. Foglie raccolte, portate via per essere utilizzate come lettiera in stalla.

Nel “centro” del paese, l’unica bottega, poco sopra, in pascoli ancora al sole, trova di che sfamarsi un gregge di pecore. Non si vede molta gente in giro, anche i turisti sono pochi, forse la maggior parte è nell’altro vallone, a San Domenico. Qui si può approfittare delle giornate insolitamente miti e della scarsa neve per fare escursionismo lungo i percorsi segnalati.

Poco più in là, ecco altre capre. Che silenzio ci sarebbe, senza tutti questi animali, che senso di vuoto. Non potessero essere lasciati liberi, a questa stagione sarebbero in stalla, dato che non c’è abbastanza da mangiare per tirare delle reti entro cui metterli al pascolo. Girando a piacimento invece si sfamano, un po’ nei boschi, un po’ nei prati.

Le giornate sono corte, la valle è stretta, il sole tramonta presto. E’ raro ormai trovare ancora realtà del genere, dove sopravvivono forme di gestione che altrove sono impossibili da attuare a causa dei predatori. Solo la presenza di queste piccole greggi libere al pascolo può garantire un paesaggio tanto pulito e curato, a questa stagione.

Continuando a scendere, prima di lasciare Trasquera, faccio ancora altri incontri. Un piccolo gregge mi attraversa la strada con tutta calma, un altro è fermo a ruminare nei prati ormai all’ombra.

Anche prima di arrivare a Varzo ci sono altri piccoli gruppi di pecore e di capre. Una volta era così un po’ dappertutto, ma ormai nella maggior parte delle valli non è più possibile tenere così gli animali. Visto che sono solo tutti allevamenti di appassionati, se dovessero aumentare le spese e il tempo da dedicarvici per cercare di difenderli dai predatori, probabilmente la gran parte di queste greggi verrebbe venduta.

Non ci ripagheremo mai le spese economiche, ma vieni ripagato in altri modi

In mezzo alla sempre maggiore spazzatura e disinformazione, resta una grande utilità dei social network quando ti permette di “incontrare” certe realtà. Poi sta a noi concretizzare il contatto e andare sul posto.

Sono arrivata a Bugliaga dentro a notte fonda, per fortuna Massimo, il marito di Licia, è venuto a prendermi con il mezzo adatto, perchè già raggiungere Trasquera era stato un po’ avventuroso. Imboccata la strada che sale a San Domenico, avevo visto allontanarsi quelle che, ad occhio, potevano essere le luci del villaggio. Salivo, salivo, il navigatore a casaccio diceva di girare a destra, quando sopra e sotto di me c’erano solo ripidi boschi e oscurità. Quando ormai pensavo di essermi persa il bivio, ecco la freccia. La strada si fa più stretta, sale, scende, passa in una forra su di un ponte che immagino molto alto. Poi però attraverso le frazioni sparse di Trasquera e, in una piazzetta davanti alla chiesa, aspetto Massimo. Il fuoristrada avanza senza problemi anche sul ghiaccio e mi deposita in un luogo da fiaba, che apprezzerò meglio all’alba del mattino dopo.

Siamo a Bugliaga dentro, a poca distanza dal confine svizzero, raggiungibile a piedi proseguendo lungo i sentieri. La vallata è quella del Sempione. Qui si sono trasferiti Licia e Massimo, hanno letteralmente cambiato vita e, dallo scorso mese di maggio, hanno anche aperto un agriturismo. “Siamo due medici di Bareggio (MI), zona a vocazione agricola, mio nonno aveva il caseificio e faceva il taleggio, mia zia aveva la latteria, mi ricordo che da bambina andavamo con il calesse a ritirare il latte.  Avevamo già l’idea di trasferirci in montagna, prima cercavamo qualcosa in Trentino, poi degli amici ci hanno detto di venire a vedere qui e ci siamo innamorati del posto. L’abbiamo preso nel 1999, siamo gli unici che ci vivono davvero. Quando nevica tanto si viene con le ciaspole o con gli sci. Subito non avevamo animali, però avevo chiesto ad amici di conoscere la gente degli alpeggi. Ho conosciuto Gemma, all’inizio non parlava, aveva vergogna, paura di esprimersi davanti a due medici. Ho girato per dieci giorni con lo zaino spostandomi tra gli alpeggi e ho iniziato a stare con gli allevatori. Pian piano ho imparato anche a fare il formaggio. Massimo nel 2000 ha smesso di fare il medico e si è messo a fare il falegname, lui si occupa soprattutto di ristrutturazioni, la parte artistica del legno. Abbiamo preso una stalla, Gemma ci ha intestato le capre, anche se di fatto continuava ad occuparsene principalmente lei. Poi abbiamo rilevato una delle greggi più “antiche” che c’erano qui. Adesso abbiamo 19 capre ed è il primo anno che ce ne occupiamo davvero noi in prima persona.

La loro non è una di quelle storie di romanticismo privo di senso pratico e concretezza, anzi! Hanno lavorato e stanno lavorando duramente per ridare vita a questo posto. “Le capre sono una parte del discorso nel recupero del luogo: i pascoli, il fieno, le strutture. Quando è il periodo del fieno, vedi tutti nei prati, così come quando si sparge il letame. Quando siamo arrivati qui 15 anni fa era tutto abbandonato e le ginestre erano più alte delle case. La gente dice “che bello qui”, ma è così perché c’è gente che ci vive, ci lavora e, soprattutto, ha gli animali, altrimenti non sarebbe così bello. Qui una volta era abitato tutto l’anno. Per vivere a 360 gradi la montagna devi avere gli animali, altrimenti fai solo il turista, il villeggiante, non hai il vero senso della vita in montagna.  Gli “ambientalisti” questo non lo capiscono, la necessità dell’allevamento per far vivere la montagna. Allevare significa necessariamente mungere e macellare. L’animale immagazzina l’energia dell’estate e te la ridà in inverno quando non c’è niente di fresco da mangiare: macellare è un dispiacere, ma è una necessità.

L’agriturismo non è pubblicizzato, non ha un sito, c’è solo su google.maps e sulla pagina facebook di Licia. Eppure il passaparola e la collocazione sugli itinerari escursionistici fa sì che pian piano il passaparola stia portando clienti. “Non avevamo idea di fare un agriturismo all’inizio, però adesso sono felice, stiamo creando un’altra idea di turismo. La gente del posto ci ha accettato, ci hanno aiutato e insegnato. Non vogliamo portare qui “la massa”, ma turisti che capiscano, apprezzino, condividano la nostra filosofia. La nostra attività non è un vero reddito, ma è indispensabile per recuperare e dare un senso a questo recupero. I formaggi e la carne li usiamo nell’agriturismo. Contiamo sulla qualità e non sui grandi numeri, anche sul “fare cultura” di un certo tipo. L’80% della clientela sono Svizzeri. Una cosa così se non hai soldi tuoi non la puoi fare, le “persone normali” non ci riescono. Noi tutti i nostri soldi li abbiamo messi qui, tanto non abbiamo figli.

Proprio quel giorno, le capre non si fanno vedere. Licia mi spiega che hanno un loro territorio, che sono sempre libere, venivano a farsi mungere mattino e sera, ma adesso sono gli ultimi giorni all’aperto prima di essere portate in stalla. C’è una piccola stalletta dove dovrebbe esserci il gregge, ma quando arriviamo noi ci sono solo le tracce del passaggio del gregge. Nel pomeriggio, quando sarò quasi a casa, mi arriverà un messaggio e delle foto da parte di Licia… ovviamente le capre c’erano, sono solo io che non ho avuto fortuna. Licia e Massimo temono un ritorno stabile del lupo, che manderebbe in crisi tutto questo secolare sistema di gestione della montagna, soprattutto oggi che non è più redditizio come un tempo.

(foto L.Rotondi)

(foto L.Rotondi)

Le capre di Licia sono Vallesane, autoctone di queste terre. Eccole nei giorni scorsi all’arrivo a Bugliaga dentro, per essere condotte in stalla. “Non hanno tantissimo latte, ma producono anche oltre le mie aspettative, poi è molto concentrato. D’autunno diminuisce la quantità, ma faccio quasi la stessa quantità di formaggio.” Un posto da fiaba, ma non sempre le cose sono facili in un luogo che può anche essere isolato in caso di maltempo. Poi una volta qui c’era tanta gente a tener viva e pulita la montagna, mentre oggi Licia e Massimo sono gli unici abitanti. “Sei sperso, lontano da tutti, ma fari certi incontri! Sta diventando un punto di aggregazione. Non ci ripagheremo mai delle spese economiche, ma vieni ripagato in altri modi.

Non vogliamo essere fuori dalla società, vogliamo farne parte a modo nostro

Rieccomi, con l’anno nuovo, ad aggiornare queste pagine con nuove storie. Prima della fine del 2016, in quelle giornate eccezionalmente calde che hanno seguito il Natale, sono andata a fare delle interviste che mai avrei creduto di poter realizzare in inverno.

Invece quel giorno, già al mattino (ero partita da casa a notte fonda), mi accingevo a salire prima in camicia, poi in maglietta, con il Lago Maggiore che si apriva sotto i miei occhi. Sono a pochi chilometri dal confine svizzero, ho lasciato la strada che costeggia il lago e porta in terra elvetica per salire lungo una stretta stradina tra case e ville, con molte auto dalle targhe tedesche parcheggiate davanti ai cancelli.

Cinzago, una frazione quasi fantasma. Per uno dei quegli strani giochi del destino qui, al ritorno, in modo del tutto casuale, incontrerò un compagno di università che non vedevo da quindici anni… Ma la storia che vi devo raccontare è un’altra. Le indicazioni di Gaia e Matteo per raggiungere la loro azienda erano così precise e dettagliate da incutere timore, come se il percorso fosse difficile da individuare.

Lasciata la macchina prima della frazione, i cui vicoli hanno l’ampiezza dei tempi in cui non esistevano i mezzi a motore, la attraverso e cammino…

Cammino in un bosco di querce e grossi alberi di agrifoglio coperti di bacche rosse, fino alla chiesa di San Bartolomeo. Poi proseguo ed inizio a salire con pendenze maggiori lungo un sentiero quasi lastricato, a gradini, scivolosi per la coltre di foglie secche. Sto andando ad un alpeggio, ma un alpeggio che oggi è abitato tutto l’anno, per incontrare delle persone davvero speciali.

Si cammina sempre nel bosco fin quando si incontra il cartello dell’azienda agricola e si esce sui pascoli, recuperati a fatica dopo anni di abbandono. Siamo ad Agher (Prati d’Agra), all’azienda agricola di montagna Chindemi. “Vivevo a Milano, a 18 anni sono andato via da casa e sono andato in Aspromonte a fare il pastore. I miei nonni erano siciliani, facevano gli allevatori di vacche e di cavalli. I miei genitori non hanno detto niente, per loro tutti i lavori andavano bene, bastava che fossero onesti. Siamo andati anche in Svizzera in Canton Ticino a Tesserete, con le capre“, racconta Matteo. “Io invece sono nata in periferia di Parigi, mia nonna era svizzera, di Ginevra, mia mamma della Val Solda in Lombardia, ma insegnava a Parigi.  Da bambina non pensavo di allevare capre! Sono tornata in Val Solda da ragazzina. Giravo tanto in montagna a piedi. Ho fatto il liceo artistico a Milano, sono uscita con il massimo dei voti. Mi è sempre piaciuto fare cose pratiche, artigianato. Mia mamma è mancata quando avevo 17 anni, io vivevo da sola con lei. Ho incontrato Matteo prima della maturità, c’è subito stata una grande affinità di idee, di conoscenze, di ambienti e situazioni umane. Camminare è sempre piaciuto a tutti e due. Le scelte che si fanno, devono essere condivise e consapevoli. Ha sempre funzionato tutto, nonostante le difficoltà. In Calabria siamo andati insieme, siamo molto adattabili. Ci piace conoscere le culture. Abbiamo vissuto presso famiglie per conoscere, imparare i lavori agricoli“, completa il quadro Gaia.

Questa giovane famiglia, che adesso ha tre bambine, ha fatto la scelta di vita di stabilirsi quassù. ” Le varie vicende ci hanno portato qui, il tanto lavoro non ci spaventa. Il primo anno eravamo senza luce, senz’acqua, senza niente. Da ragazzino venivo in vacanza in questi luoghi. C’è turismo, per la vendita funziona. Era tutto abbandonato da trent’anni. Ci sono 12 ettari di terra. Era in vendita, poi 60 ettari ce li davano in comodato d’uso. Sembrava dovessero fare una pista, invece niente, però c’è la teleferica.  Qui c’è un’ottima esposizione, gli inverni non sono lunghi e c’è abbondanza d’acqua. Adesso sono dieci anni che siamo qui. Pensavamo già di tenere capre, perché  sono gli animali ideali per sfruttare il territorio.

Ci sono state difficoltà sociali e umane soprattutto quando le bambine hanno iniziato a dover andare a scuola. Gaia mi racconta tutti i dettagli di questa vicenda quasi dolorosa, tra istruzione parentale, scuola steineriana, frequenza parziale: “Ogni anno comunque facevano l’esame di stato presso la scuola, con ottimi risultati. La scuola a casa per noi era una necessità, ma la mentalità di paese non capiva.  Quest’anno invece frequentano quotidianamente e io sto giù in settimana. Per il commercio è meglio, porto giù i prodotti.

Matteo non riusciva, da solo, a gestire tutto: gli animali, il recupero dei pascoli, la mungitura, la caseificazione. “Prima con 70 verzasca faticavo troppo, quando arriveranno le altre, avrò poi 40-50 camosciate, sono più mansuete e riesco a gestirle meglio. Mungo a mano, ma da quest’anno lo farò a macchina perché inizio ad avere i primi dolori. Pascolo, do fieno, ce lo facciamo portare con l’elicottero, mettendo insieme dei trasporti anche per altri. Integrazioni ne faccio il meno possibile. Leggo le analisi del latte e integro il necessario. Pascolo con recinti mobili, mentre con le verzasca facevo pascolo guidato con il cane.

Ci sarebbe spazio per pascolare anche un gran numero di capre, ma le forze umane non sono inesauribili. C’è stato quindi un periodo di pausa: venduti gli animali, la famiglia si prende una pausa e va in Francia. “Per le razze autoctone devi avere degli aiuti dalle istituzioni, altrimenti non ce la fai. In Piemonte la Verzasca non è tra le razze per cui danno il contributo, così abbiamo deciso a malincuore di venderle. Facendo i conti non ci stavamo dentro, anche se avevamo migliorato la genetica. Siamo stati un periodo in Francia, abbiamo lavorato in aziende e in fiere, fatto corsi. Là organizzano tanti corsi e i docenti sono allevatori e casari, si fa molta pratica. Comunque c’era l’idea di tornare qui. La comunità faceva circolare ogni tipo di voci, dalla galera al divorzio! Noi sentivamo il bisogno di fare un periodo di formazione.

L’Agher è un… porto di montagna! Sembra che non passi giorno senza che vi siano visitatori di ogni tipo. Escursionisti, soprattutto stranieri, che contribuiscono ad acquistare una buona fetta di prodotto, gente che sale apposta per il formaggi, gruppi scout dalla Lombardia. “I turisti sono contenti di venire qui e trovare gente che parla Inglese e Francese. Noi non vogliamo essere isolati, vogliamo che la gente venga qui e faccia rivivere la montagna facendo turismo.  Bisogna raccontare il formaggio per far conoscere e capire. Le soddisfazioni più grandi sono le capre che stanno bene, il formaggio che viene apprezzato, ma anche le persone che vengono a trovarci. Facciamo la festa del 25 aprile e vengono 150 persone grazie al passaparola. Mi spiace che siamo più apprezzati all’esterno che non sul territorio, qui tanti ci vedono come hippy e fricchettoni che vanno a vivere in montagna. Non siamo così, chi ha voluto, ha capito. Noi non vogliamo essere fuori dalla società, vogliamo farne parte a modo nostro.

Matteo ripete più volte che il loro è un modello che può essere copiato e riproposto, visto che funziona lì, pur tra le tantissime difficoltà che la famiglia Chindemi ha incontrato in questi anni. Sicuramente la loro personalità contribuisce a far sì che l’Agher sia diventato un punto di riferimento sul territorio, e non solo per i prodotti caseari. Mi mostra il suo “nemico”, le felci, con cui sta combattendo una dura lotta per recuperare i pascoli. “Una volta qui d’estate tagliavano il fieno e più in alto pascolavano vacche, e 150 capre.” Sono ben accetti anche volontari che vadano a dare una mano, l’azienda è nel circuito Wwoof, ma per essere sicuri che chi arriva sia necessariamente concreto e motivato, viene preventivamente sottoposto ad un colloquio via skype. La tecnologia è molto importante per questa azienda, proprio per far parte della società. “Le attrezzature del caseificio le ho trovate usate su internet, una che aveva attrezzato tutto e poi dopo neanche un anno ha chiuso.

Come sempre, queste e altre considerazioni da me raccolte andranno a far parte del prossimo libro sulle capre…

Due (tristi) storie di Natale

Chissà perchè, ma sotto Natale tutti gli anni mi tocca raccontare delle storie per niente belle. L’anno scorso c’erano le capre che pascolavano ancora fuori, visto che non nevicava, e i lupi le avevano disperse… Quest’anno invece i lupi hanno due gambe, si chiamano burocrazia, ottusità, mancanza di buon senso… trovate voi altre definizioni.

(foto S. De Bettini)

(foto S. De Bettini)

Ho due storie da raccontarvi: la prima è una richiesta di aiuto da parte di amici di vecchia data, che mi raccontano cosa si trovano a vivere da un mese a questa parte, cioè da quando l’alluvione di fine novembre ha colpito duramente la strada che porta alla loro casa/azienda agricola.

(foto S.De Bettini)

(foto S.De Bettini)

Così mi scrive Sasha: “Ti contatto a seguito di grossi problemi che abbiamo inerenti ai danni che abbiamo avuto in seguito all’alluvione, la nostra situazione è critica e stiamo cercando perlomeno di farci sentire, se per caso tu avessi voglia di scrivere qualcosa…” Su queste pagine la porta è sempre aperta per tutti. Non posso aiutare concretamente, ma almeno dar voce ad amici allevatori, quello sì, sempre volentieri!

(foto S.De Bettini)

(foto S.De Bettini)

La situazione è la seguente: la nostra strada è pista agrosilvopastorale, non comunale, gestita da consorzio. È franata malamente, soprattutto in un punto. Abbiamo rappezzato un minimo, a spese nostre, giusto per poter passare. Ieri mio papà, presidente del consorzio, ha ricevuto una lettera dal Comune in cui gli si dice che ha 7 giorni di tempo per provvedere alla messa in sicurezza (fatta come viene richiesta da loro, sono circa 50.000 euro di lavoro), in caso contrario la strada deve venir chiusa con transenna e divieto e se qualcuno subisce danni mio papà ne è responsabile in prima persona.

(foto S.De Bettini)

(foto S.De Bettini)

Questo significa che non si può togliere la neve, portare su cibo per gli animali e quant’altro. Lungo questa strada risiedono 7 nuclei familiari, ci sono sei bimbi in età scolare, mio fratello ha mucche capre e un cavallo, i nostri vicini tra tutti hanno 10 cavalli (quindi immagina quanto fieno). Ovviamente siamo tutti arrabbiati e molto amareggiati, si fa tanto parlare di ripopolare la montagna, ma poi nella criticità ci si trova soli… Ti allego le foto della frana peggiore!“. Siamo a Torre Pellice, in via degli Armand, per la precisione. Cosa succederà ora? Cosa potranno fare??

(foto Cascina Soffietti)

Problemi di altro tipo, ma forse ancora maggiori, li ha Fabrizio. Allevatore e veterinario, residente a Murazzano, molti di voi lo conosceranno per le sue consulenze in ambito ovicaprino (era anche stato docente in un corso dedicato appunto agli ovicaprini, che avevamo organizzato in provincia di Torino e Cuneo). Murazzano, terra di formaggi! E la Cascina Soffietti ne produce eccome.

(foto Cascina Soffietti)

(foto Cascina Soffietti)

Purtroppo però le recenti abbondanti nevicate e la pioggia successiva hanno portato al crollo della stalla. Ho letto la notizia qui. Per fortuna il numero di capi deceduti è stato relativamente basso, ma Fabrizio lancia un grido di disperazione dalla sua pagina Facebook. “…che situazione! Ho un buon prodotto, una buona organizzazione, sono l’unico che a Murazzano riesce a tenere una produzione decente anche in inverno con una buona percentuale di latte ovino… un allevamento di pecore delle Langhe di quasi 250 capi in pochi anni… eppure mi vedo costretto ad chiudere la mia attività perché le amministrazioni che da 20 sono a Murazzano mi continuano a fare solo promesse…

(foto Cascina Soffietti)

Fabrizio mi spiega che i terreni li avrebbe, ma il Comune gli nega l’autorizzazione per edificare una stalla. “Mi trovo costretto a… o chiudere, o trasferirmi. Esiste qualche altro Comune che vuole un’azienda come la mia e mi dia la possibilità di sviluppare l’allevamento ovino? …ed avere inoltre un veterinario sul proprio territorio??!!! Datemi una mano!!! A Murazzano non posso più vivere!

(foto R.Ferraris)

(foto R.Ferraris)

In questa immagine vediamo Fabrizio insieme al suo gregge durante un’attività di promozione del territorio. E’ paradossale che ciò avvenga in un Comune territorio di una delle DOP piemontesi. “Io ho personale e svolgo una professione…“, sottolinea, per evidenziare la dimensione reale della situazione.

(foto Cascina Soffietti)

(foto Cascina Soffietti)

Fabrizio cerca quindi un luogo dove trasferirsi al più presto, lui ed i suoi animali: 265 ovini, 50 caprini e 10 bovini. Se qualcuno potesse/volesse aiutarlo, contattatelo su Facebook (Fabrizio Veterinario Barbero) o attraverso il sito della sua azienda Cascina Soffietti. Spero, molto prima del prossimo Natale, di avere modo di raccontarvi il lieto fine di queste due tristi storie.

PS del 23/12/16. Dopo numerose segnalazioni di miei lettori sulla seconda delle due storie, per correttezza vi invito a leggere questo articolo dove viene presentato anche il punto di vista del Comune.

Quasi senza parole

Avrei molto da dire, ma quasi non so come dirlo. C’è stata una terribile alluvione. Localizzata, ma c’è stata. Due sono state le aree più colpite del Piemonte: prima la montagna (inizialmente le valli Monregalesi, poi quelle del Pinerolese, soprattutto la Val Chisone, ma anche Val Pellice, Valle Po e zone limitrofe, con smottamenti e frane un po’ ovunque) e poi la pianura dove i vari fiumi, torrenti, bealere e fossi ingrossati hanno dato sfogo a tutta quell’acqua che non riuscivano più a contenere. Non ho immagini mie, me ne sono rimasta a casa a temere che succedesse qualcosa di grave anche qui, invece fortunatamente c’è solo stata paura, preoccupazione, tanta acqua, disagi.

(foto dal web)

(foto dal web)

Se n’è parlato poco, pochissimo. La gente qui ha avuto l’impressione di contare poco-nulla, soprattutto la gente di montagna, i protagonisti loro malgrado, quelli colpiti in prima persona, danneggiati negli affetti, nelle cose, nelle attività. Persino il TG3 Regionale ha detto che il simbolo di questa alluvione erano i due battelli fluviali che, per la piena del Po a Torino, hanno rotto gli ormeggi e sono andati a sbattere contro un ponte. Uno si è poi inabissato. Non un’immagine della Val Chisone, della Val Germanasca, dove le strade sono interrotte e la gente è isolata. Altri TG hanno dato qualche notizia, mostrato qualche immagine, ripreso video dal web, ma un minimo di attenzione dalla sede di Torino ce la saremmo aspettata tutti.

(foto da Facebook, Simone Curti) Val Chisone

(foto da Facebook, Simone Curti) Val Chisone

Di immagini e video se ne trovano a centinaia sul web, in particolare sui social, dove adesso si diffondono anche gli appelli per andare a dare una mano a spalare fango. Per la viabilità interrotta ci vorrà più tempo. E’ morto anche un uomo in Val Chisone, cercava di andare a mettere in salvo i suoi cavalli. Di fronte a queste catastrofi (si veda pure il terremoto), gli allevatori sono ancora più in pericolo, perchè non abbandonano i propri animali, anzi… rischiano persino la vita per loro!

(foto da facebook, Massimo Bosco) Val Chisone

(foto da facebook, Massimo Bosco) Val Chisone

Quella montagna che tanto spesso vi mostro, che vi ho mostrato sotto forma di villaggi abbandonati, territori abbandonati… quella montagna è ferita gravemente. La precipitazione è stata senza dubbio eccezionale nella quantità, concentrata in poco tempo, così come spesso è accaduto negli ultimi anni. E’ facile dire dopo cosa bisognava fare. Un amico (allevatore, residente in una delle valli colpite) ieri mi diceva: “Divento pazzo a vedere i lavori che ci sarebbero da fare. Ma sul territorio che occupa oggi la nostra azienda, una volta c’erano da 15 a 20 famiglie e ora siamo in quattro gatti, con tutti gli animali da accudire. Con tutta la buona volontà… ma cosa vuoi fare? In più c’è il cambiamento che sta facendo il territorio, il tempo. Però c’è anche tanta gente che avrebbe il tempo per fare piccole opere. Uno stava guardando i fiumi e mi fa “oggi c’è solo da stare alla susta“, il giorno dopo toglievo dei suoi materiali incagliati nei tubi di un ponticello. Un altro si lamenta che la strada è distrutta, ma non ha manco la zappa dietro per deviare l’acqua!

(foto da Facebook, Massimo Bosco) Val Chisone

(foto da Facebook, Massimo Bosco) Val Chisone

A volte non si fa perchè sembra di essere quasi stupidi, una goccia nel mare dell’abbandono… Io pulisco il mio tratto di fosso, ma a monte e a valle nessuno lo fa, quindi… Comunque, ormai è successo. In tanti mi avete scritto chiedendo come stanno i pastori. Non bene, immagino. Ho sentito qualcuno quando ormai aveva smesso di piovere, perchè in quei momenti lì o sei tu a chiamare gli amici per chiedere aiuto, o non hai tempo di stare al telefono. Se la sono vista brutta, si sono allontanati dai fiumi e dai torrenti. Adesso cercheranno posti dove andare o daranno fieno fin quando prati e stoppie saranno di nuovo praticabili.

(foto da Facebook, Cooperativa il Trifoglio Cascina a Carignano

(foto da Facebook, Cooperativa il Trifoglio) Cascina a Carignano

Se la sono vista brutta anche quelli che stanno in pianura, con gli animali in stalla, anzi, per loro il peggio è arrivato dopo. Gli amici che stanno in questa cascina specificano che gli animali stanno bene e sono al sicuro, i danni si valuteranno dopo, quando l’acqua si abbasserà di livello.

(foto da facebook, Claudio Bonifazio) None (TO)

(foto da facebook, Claudio Bonifazio) None (TO)

Ecco altre immagini della pianura. Campi allagati, strade impraticabili, case e cascine allagate. Per fortuna ieri ha smesso di piovere, lentamente l’acqua defluirà e si cercherà di tornare alla normalità.

(foto da facebook)

(foto da facebook)

Quasi nessuno ha avuto tempo, modo e voglia di mettere su facebook le immagini di quel che stava succedendo ai propri animali. Ci sono altre priorità. Magari ha scattato un’immagine un amico che è andato a dare una mano ad evacuare la stalla, poi in seguito l’ha pubblicata come testimonianza.

(foto da Facebook, Mario Manzon)

(foto da Facebook, Mario Manzon)

Tra i miei contatti, ecco un margaro che ci mostra quello che cosa è successo alla sua cascina. Qua e là tra le pagine, di fronte ad immagini simili, c’è chi dice di portar via le bestie. Dove? Quando è tutto allagato, ma ha smesso di piovere e sai che la situazione non peggiorerà ulteriormente, non puoi fare altro che aspettare.

Per un rapporto completo sull’alluvione, l’articolo di Daniele Cat Berro su Nimbus qui.

Non sto a dire che auspicherei che adesso si lavori velocemente per ridare almeno i collegamenti essenziali alle persone isolate in montagna, senza far troppe parole e polemiche. Ma so già che non sarà così, perchè parole e polemiche già ne sto sentendo tante. La montagna è un territorio difficile, tanti, troppi, vorrebbero che fosse solo un piacevole sfondo per momenti di svago o una risorsa. Invece no… è un ambiente con tante contraddizioni, nel bene e nel male. Ciascuno oggi si starà rimboccando le maniche in prima persona, a partire dagli amministratori di piccoli e piccolissimi comuni, ed è così che bisognerebbe fare sempre nel quotidiano, con tanti piccoli gesti. E’ vero che paghiamo le tasse e quindi vogliamo attenzioni, ma non possiamo pretendere che qualcuno venga a pulire il fosso dietro casa (o, d’autunno, durante un’alluvione, che il Comune mi venga quotidianamente a togliere le foglie cadute dalle piante del viale davanti al negozio, osservazione ascoltata ieri nel mio paese). Se ciascuno facesse dei piccoli gesti, sarebbe più semplice intervenire in caso di necessità.

Volevo avere bovini e caprini per gestire il territorio

E’ ormai da qualche tempo che, quando riesco, vado a fare interviste per il mio futuro libro dedicato al mondo della capra. Ne ho già un buon numero, sono in tanti quelli che vorrebbero ancora essere intervistati, ma da TUTTI non riuscirò ad andare. Ovviamente ogni storia è unica e meriterebbe di essere raccontata, ma il mio non sarà un libro incentrato sulle interviste (avete presente “Vita d’Alpeggio”? Ecco, vorrei fare qualcosa di simile, dove le voci degli intervistati servono a spiegare meglio gli argomenti). Quello che posso dire dopo sei mesi di chiacchierate, è che ci sono storie simili, storie di uomini, donne, giovani e anziani che allevano capre perchè si è sempre fatto quel mestiere in famiglia, perchè piacciono le capre, perchè c’è la passione. E poi ci sono storie anche molto differenti tra loro, quelle di chi è arrivato ad allevare capre dopo un percorso di vita. Sarà tra questi che concentrerò le mie prossime interviste, altrimenti rischio che il libro non arrivi mai ad una conclusione…

I primi animali che incontro davanti a casa di Marco sono dei bovini, per di più di una razza particolare: si tratta di tre Highlanders, nelle diverse colorazioni del mantello (rossiccio, il più conosciuto, nero e quello nella foto). “Quando ho iniziato, l’idea era quella di avere capre e bovini per gestire il territorio. Qui ho comprato da uno che era così entusiasta che facessi un’azienda agricola con le capre che mi ha quasi regalato le baite diroccate e i terreni, ma c’erano solo rovi, cespugli, erbe dure. Nel 2008 avevo già fatto la strada, nel 2009 ho iniziato, ma non è stato facile. Solo con i terreni non mi davano la qualifica di imprenditore agricolo, e senza quella non potevo avere le autorizzazioni e i permessi dal Comune per costruire! Così ho comprato 10 capre a poco prezzo, con quelle e gli ettari ho avuto la qualifica ed ho potuto iniziare.

(foto Monika Hricko)

(foto Monika Hricko)

La storia di Marco inizia però prima. Io lo conosco dai tempi dell’università. Laureato come me in Scienze Forestali ed Ambientali, per un certo periodo abbiamo lavorato negli stessi uffici in facoltà: gli ambiti erano quelli dell’alpicoltura e zootecnia. Poi Marco ha svolto incarichi come libero professionista, quindi ecco la decisione di allevare. “Le capre mi sono sempre piaciute. Fin da subito l’intenzione era quella di mungere per fare formaggio di qualità. Formaggio ne trovi tanto, ma spesso manca proprio la qualità!

Anche con la qualità e tutte le attrezzature a norma di legge, le cose non sono facili. “Quando ho comprato le attrezzature, ho concordato delle giornate con il casaro, che mi ha insegnato delle tecniche per migliorare. Io, leggendo libri e manuali, ero arrivato ad avere un prodotto che però era difettoso. Adesso mi sono specializzato, ho provato varie lavorazioni. Faccio freschi, lattiche, presamiche per gli stagionati, robiole a 20 giorni di stagionatura, tomette, tome, ho provato anche a fare il blu.

La cantina infatti è molto fornita. “Quando ho iniziato ho sottovalutato il fatto che in questo momento in Italia, in Piemonte, a Lanzo… non c’era bisogno di formaggio di capra! Ti devi creare il mercato prima. Fornisco privati, alcuni negozi e ristoranti, ma quest’estate si è lavorato poco. Il ristorante o il negozio non ti chiama per dire che ha finito il prodotto, lo devi cercare tu. Piuttosto che spendere quei cinque euro in più per la qualità del prodotto, preferisce risparmiare acquistando da quello che lo fa “uso famiglia”, ma magari lo porta a poco prezzo anche a 50 chilometri di distanza! Gente che rovina il mercato a me, ma nemmeno si arricchisce, vendendo a quel prezzo!

(foto Monika Hricko)

(foto Monika Hricko)

E’ una delusione trovarti di fronte a molta gente che si riempie la bocca di belle parole sulla montagna, sul ritorno dei giovani, su chi la fa vivere, sulle iniziative, ecc, ma poi proprio loro i tuoi formaggi non li vengono a prendere. Quando io giravo gli alpeggi per lavoro, quando trovavo delle realtà che mi piacevano, non stavo mica a guardare il prezzo!

E’ una dura lotta anche recuperare il territorio. Pur essendo la capra adatta a pascoli cespugliati, pur essendo Marco un tecnico che si è occupato di miglioramento e recupero di pascoli anche dal punto di vista teorico, di difficoltà ce ne sono. Mi spiega che, in questi anni, il pascolo è già migliorato, grazie ad un lento recupero con il pascolamento. “Il fieno invece un po’ me lo faccio perchè sono terreni di mia nonna e mi spiace lasciarli andare, più che altro è una soddisfazione. Poi ne compro, cerco di prenderlo il più vicino possibile e vado a vedere i prati prima che vengano tagliati.

(foto Monika Hricko)

(foto Monika Hricko)

A volte viene persino il pensiero di smettere, o meglio, di andare altrove. Monika è Australiana, presto lei e Marco andranno in Australia per sposarsi, ma ci sono già stati insieme altre volte. “Il mio obiettivo è quello di fare un lavoro che ci dia soddisfazione e che faccia sì che possiamo essere tranquilli dal punto di vista economico. Non mi interessa fare allevamento intensivo. Vedremo come andrà nei prossimi anni… Se qualcosa non cambia, se non si inizia a guadagnare il giusto, magari lasciamo tutto e ci trasferiamo, là è tutto un altro sistema, un altro modo di lavorare.

(foto Monika Hricko)

(foto Monika Hricko)

La chiacchierata va avanti a lungo, era da tempo che non ci vedevamo. Non posso non chiedere a Marco come valuta l’esperienza universitaria, oggi che fa questo lavoro. “Mettere su un’azienda agricola mi ha insegnato tante cose. A qualcosa l’università è servita, ma visto l’investimento di soldi e di tempo in quegli anni, francamente speravo servisse poi di più, una volta nel mondo del lavoro! Ogni tanto ho ancora contatti con il dipartimento per qualche progetto.

Per contattare Marco, cercate su facebook “La capra e la panca – Azienda Agricola“.

L’importanza dell’acqua

A volte mi sembra che non ci sia da parlare di certe cose, tanto sono ovvie e scontate, ma evidentemente invece non è così. Nonostante io non abiti in città, tra asfalto e cemento, ma in un paese dove boschi, prati e campi sono ovunque intorno alle abitazioni, mi è appena capitato di sentire una conversazione sul tempo.

Ero in coda all’ufficio postale e, davanti a me, due signore parlavano a voce abbastanza forte da essere udite da chiunque. Si lamentavano per il fatto che, “proprio per il fine settimana“, fosse prevista una perturbazione. Non so quale evento la pioggia avrebbe potuto funestare, magari un matrimonio… Sta di fatto che, fin quando dal rubinetto esce l’acqua, molti ormai si dimenticano della sua importanza. Non c’è bisogno di andare fino in alta quota per capire cosa significhi la mancanza d’acqua.

Chissà se la gente si accorge che, laddove da settimane, anche mesi, non cade una goccia di pioggia, è tutto giallo e stanno persino seccando gli alberi? Guardatevi intorno, le chiome hanno un verde spento e, sui versanti, specialmente quelli più rocciosi, ci sono alberi con le foglie rosse. Non il rosso o l’arancione brillante dell’autunno, ma un marrone rossastro di siccità. In montagna, intorno agli alpeggi, la terra è riarsa, calpestata. Il verde è rappresentato solo dai cespugli: ginepri, rododendri, mirtillo rosso…

Dove si può, si bagna, e allora si vede la differenza. In Val d’Aosta, vallata abbastanza secca dal punto di vista delle precipitazioni, ma ricca di acqua grazie ai ghiacciai, c’è un vasto sistema di irrigazione, che permette di far fronte anche alle annate siccitose come questa. Ma l’acqua non è inesauribile. Aumento delle temperature, minori precipitazioni nevose in inverno, poche piogge (spesso torrenziali e concentrate in poco tempo) sono fenomeni che dovrebbero far preoccupare.

Chi vive lontano dal mondo “della terra”, che non ha a che fare direttamente con la produzione agricola o con l’allevamento, i fenomeni atmosferici li vive soprattutto in funzione del fastidio che possono arrecare alle sue attività di svago. Non ci si pone nemmeno la domanda del perchè questo pascolo sia verde ed altri più a monte siano completamente ingialliti.

Prati pascolati, dove il verde è tornato solo se c’è stata irrigazione. Ancora più gialli e “disordinati” quelli dove gli animali non sono passati. Qua e là, negli ultimi giorni, c’è stato un temporale a spezzare la siccità. “Ormai quassù se piove non serve nemmeno più, fa solo marcire l’erba“, mi diceva un’amica al pascolo sotto l’ombrello ieri, mentre io invidiavo la “sua” pioggia. “E’ in pianura che dovrebbe piovere, altrimenti quando scendiamo di erba ce n’è poi proprio poca!

In alta quota la stagione è finita proprio in anticipo, con colori e panorami da fine ottobre quando invece è solo l’inizio di settembre. Quest’anno non è stato il gelo a far cambiare faccia alla montagna, ma il caldo e il secco.

La vedete la differenza? Dovremmo chiederci di più il perchè delle cose. Invece molte persone vivono prendendo tutto quello che c’è, senza domandarsi come e perchè è arrivato nel bancone di un supermercato. E questo discorso non vale solo per l’acqua, ovviamente.

I bovini sono ancora al pascolo, poco oltre si bagna per avere poi altra erba per loro, per i giorni, le settimane successive. Come stagione è andata bene per i fieni, ma nello stesso tempo di fieno ne servirà di più, dato che c’è poi poca erba da pascolare all’aperto, sempre per colpa della siccità e del caldo. Tutti questi meccanismi naturali sfuggono a chi si lamenta perchè, accidenti, proprio domani o dopodomani deve piovere??