Una pastorizia sostenibile?

Devo preparare il mio intervento per il convegno “L’agricoltura di montagna: l’abbandono e il ritorno” di cui vi ho presentato il programma qui. Sono stata inserita nella sezione “il ritorno”, per parlare in duplice veste di progetto Propast, ma anche allevatrice, pastore o quel che si dice che io sia. Il progetto ProPast all’interno del quale sto lavorando si intitola: “Sostenibilità dell’allevamento pastorale: individuazione e attuazione di linee di intervento e di supporto“, ma sempre di più, conoscendola dal di dentro, mi chiedo se oggi, XXI secolo, la pastorizia sia un mestiere “sostenibile”. La mia risposta, ahimè, è no. Anche se…

Innanzitutto diciamo che si parla di PASTORIZIA TRADIZIONALE. Consideriamo greggi e pecore perchè è quello che “ho in casa” e quindi conosco meglio, ma discorsi analoghi potrebbero essere fatti per i bovini. La pastorizia è sostenibile in quanto sfrutta razionalmente le risorse del territorio. E’ solo grazie alla presenza di piccoli allevatori locali che, nelle vallate, vediamo paesaggi “belli”, gradevoli alla vista, un paesaggio vario fatto di boschi, ma anche prati e pascoli, abitazioni vive, oltre che animali al pascolo quando è stagione. Vi ricordate? Ne avevamo già parlato anche qui.

Il “paesaggio pastorale” è un elemento del nostro paesaggio che probabilmente viene dato per scontato dall’osservatore. Non si pensa che QUEL paesaggio non è bello perchè naturale, ma lo è perchè l’uomo, attraverso un utilizzo razionale delle risorse presenti, ha fatto sì che si modellasse così.

Qualora prevalga l’abbandono, al pascolo (che in primavera risplende di fiori di tutti i colori, in altre parole BIODIVERSITA’), si sostituiscono le erbe infestanti prima, i cespugli spinosi poi, e quindi il bosco. Le antiche case costruite con perizia dalle generazioni che ci hanno preceduto vengono avvolte dalla vegetazione e poco per volta crollano. Sarebbe bello poter tornare in un luogo così, vivere lassù tutto l’anno con un piccolo gregge. Diversamente dal passato, oggi lì si arriva con la strada, si potrebbe avere la luce elettrica e tutte le comodità, ma… Ma la pastorizia non è più economicamente sostenibile, quello è il dramma!

Come si fa a vivere con pochi animali? Quel numero giusto per poterseli gestire da soli, anche in zone di mezza montagna o collina, ricavandone un reddito che garantisca la sopravvivenza almeno del singolo, se non di una famiglia? I fattori che ostacolano la sostenibilità sono svariati: lo scarso valore dei prodotti, le spese che anche una piccola azienda deve affrontare per essere in regola, le spese “fisse” che la vita moderna impone a tutti noi, qualunque mestiere si faccia.

Affinchè la pastorizia sia sostenibile, bisognerebbe ricavare reddito dalla triplice attitudine che la pecora un tempo aveva. Latte (e quindi latticini prodotti e commercializzati in azienda), carne e lana. Sulla lana ben sappiamo che i pastori ormai sono grati a chiunque la ritiri. Nessuno spera di poter ripagare il costo della tosatura, ma se già non si deve spendere anche per smaltirla è una fortuna. Il latte sarebbe una gran cosa, ma qui entrano in gioco altri due fattori: i costi per attrezzarsi ed “essere in regola” e la manodopera. Per la carne, innanzitutto c’è il discorso della valorizzazione (in alcune aree d’Italia, come qui in Piemonte, la carne ovicaprina è poco conosciuta, prima ancora che poco utilizzata), quindi, anche in questo caso, delle attrezzature necessarie.

A chi mi dice di voler cambiare vita e fare il pastore rispondo sempre con una buona dose di pessimismo… o per meglio dire, cerco di mostrare la realtà delle cose anche in modo brutale, al fine di allontanare tutte le visioni romantiche ed idilliache. La passione non basta. E’ fondamentale perchè resistano coloro che fanno i pastori per tradizione, ma per uno che inizia dal nulla, serve alle spalle per lo meno uno sponsor! I costi fissi per mettersi in regola, dotarsi di strutture e attrezzature (mezzi per trasportare gli animali, eventuale mezzo refrigerato per i prodotti, locali di trasformazione…) possono essere affrontati solo da chi ne ha la possibilità. Improvvisarsi pastori oggi lo sconsiglio a tutti. Certo, magari con 5-6 capre da qualche parte in montagna puoi provare a sopravvivere, ma è poco più che sussistenza e… Con cosa paghi poi le bollette? Come mandi a scuola un figlio? O fai l’eremita, tu da solo, senza telefono, senza luce, senza auto… Ma sono utopie!

Un gregge grosso è sostenibile? Sicuramente più animali può voler dire più entrate, quando si vende. Ma si vende o si svende? Si passa attraverso i commercianti i quali stabiliscono loro il prezzo. Sicuramente con mille e più animali non puoi star lì a fare discorsi di valorizzazione, vendi in blocco e, quando devi pagare, comunque le spese sono in proporzione. Spese per la tosatura, per le marche auricolari, per alimentare gli animali, per il trasporto con i camion, l’affitto dell’alpe… E non venitemi a dire: “Tanto ci sono i contributi“, perchè qualcuno li prende, ma altri no. Un gregge grosso comporta anche problemi nella movimentazione, nel reperimento di pascoli adeguati. Ovviamente, un gregge grosso ha un impatto che non tutti i territori possono sostenere.

Ci sono territori naturalmente più vocati alla pastorizia, dove ampi spazi pascolabili favoriscono questa attività. Sono quelle aree dove tradizionalmente svernano i pastori, come ad esempio il Monferrato. Ma anche qui le cose stanno cambiando, vuoi per la costruzione di strade, capannoni, case, vuoi per la dimensione sempre più imponente di certe greggi.

In altre aree ai pastori restano quasi solo gli scarti, i terreni più difficili e scomodi da pascolare, quelli in cui, prima di portare le pecore, devi passare una mezza giornata a tirar reti per proteggere orti, frutteti e fiori. E qui entra in gioco anche la sostenibilità dal punto di vista umano. Questo, si sa, è un mestiere che richiede un impegno ed una presenza costante, ma se un piccolo gregge potrebbe essere lasciato a pascolare nelle reti per almeno un paio d’ore, quando gli animali sono di più è impossibile abbandonarli e allora il pastore è sempre lì, senza la possibilità di fare altro. C’è la burocrazia da seguire e troppe volte la si tralascia, la si sottovaluta, senza capire che è fondamentale per non mandare all’aria tutti gli sforzi fatti. Ahimè l’attuale sistema non premia la buona gestione del territorio o la cura dedicata agli animali, ma guarda soprattutto le carte, i numeri, le virgole, i timbri e le date.

Per poter “tirare il fiato” servirebbero degli aiutanti, o servono comunque in modo stabile per svolgere il lavoro quotidiano se il numero di animali è tale da non poterlo gestire da soli. Ma anche qui si presenta un duplice problema: da una parte il solito discorso dei costi, dall’altra il reperimento di personale valido ed affidabile. Se devi “mettere in regola” il tuo aiutante, il più delle volte ti conviene vendere le pecore! Non vale solo per la pastorizia, ma anche per tante altre piccole attività. E allora la fortuna è quando riesci a trovare qualcuno che ha un po’ di animali e si “fa società” (solo in inverno o tutto l’anno, dipende dalle situazioni). C’è chi ha qualche amico che, per passione, viene a dare una mano quando c’è da spostarsi… Altrimenti, per mettere a posto un aiutante, vorresti almeno trovare qualcuno che davvero sappia fare il pastore, qualcuno al quale puoi affidare i tuoi animali fidandotene. Speriamo, speriamo davvero di riuscire a dare il via alla “scuola da pastore”. Presto mi auguro di avere novità su questo fronte.

In questa carrellata di realismo-pessimismo, non dimentichiamo le condizioni di vita in alpeggio. Già la vita del pastore è dura nel corso di tutto il resto dell’anno, tra spostamenti, capricci del meteo, diserbanti e veleni vari, oltre all’impegno costante e quotidiano, orari che superano sempre le otto ore quotidiane, ma ben più spesso anche 12 o oltre. Poi, d’estate, altro che relax sui monti! Si va dalle condizioni di vita precarie e sicuramente non consone al XXI secolo di certi alpeggi ai costi sempre maggiori di affitto delle montagne. Poi ci sono i costi aggiuntivi che la pastorizia di oggi deve sostenere per difendersi dal lupo (e non sono pochi) e lo stress connesso, di cui abbiamo già tante volte parlato.

Un’immagine finale di quiete e relax? Solo in parte… Perchè se un tempo il pastore era benvenuto, insieme al suo gregge, perchè ripuliva i prati prima dell’inverno e li concimava, oggi, specie nelle zone dove c’è grande concorrenza di greggi e/o mandrie, l’erba si paga. E ci sono contadini che chiedono al pastore cifre addirittura pari quanto occorre per coprire l’affitto che loro pagano ai proprietari per l’intera stagione della fienagione. “Ma come fanno i pastori dalle vostre parti a vivere, se devono pagare l’erba?“, chiedeva un’amica da un’altra regione. A me sembra che oggi, di pastorizia tradizionale, si sopravviva a malapena nelle annate migliori. Nelle altre tocca metter mano ai risparmi, ammesso che ce ne siano ancora. Altrimenti…

Una risposta

  1. non c’è la manina quì con MI PIACE…al convegno riporta tutto quel che hai scritto quì e andrà benone!!!
    hai illustrato molto bene la situazione..quella vera,conti alla mano…siam spinti da passione ma non si vive d’aria fresca..quindi bisogna mettere in conto tutto ma proprio tutto prima di avventurarsi nella pastorizia..è già dura per chi c’è dentro a questa realtà!!!

  2. ciao carissima marzia
    Ci sono 2 elementi su cui mi trovo a riflettere e che vorrei condividere con te e con i tuoi appassionati lettori:

    L’aspetto territoriale
    l’aspetto produttivo

    riguardo al primo punto è fondamentale che la pastorizia risponda all’esigenza espressa e sentita di un territorio e della comunità che lo vive di manutenzione e miglioramento del suddetto. Se la comunità riconosce tale necessità si chiederà come sia possibile farlo al minor costo possibile e in maniera duratura.
    Se esiste questo presupposto è quindi necessario illustrare e dimostrare la funzionalità e l’economicità del pascolo come metodo di controllo della componente vegetale e della fertilità dei suoli in confronto a metodi che si avvalgono per esempio di mezzi meccanici.
    Un passo ulteriore è la consapevolezza da parte della comunità che non solo il pastore non può pagare per gestire e migliorare la terra ma se mai è la comunità a dover sostenere il pastore, chiaramente non a fondo perduto ma tramite il consumo dei suoi prodotti al giusto prezzo (ossia quello che li permette di svolgere in condizioni umane il ruolo che la comunità gli riconosce).
    Se esiste come probabile una grande frammentazione fondiaria è fondamentale che l’amministrazione locale si muova in maniera tale da permettere forme di gestione associata facendo essa stessa da garante e promuovendo la pianificazione e il monitoraggio di tale attività.
    Questi sono i presupposti per un economia di scambio reale dove però sono ben chiare e definite le parti e dove il pastore entra a pieno titolo e con un ruolo di rilievo all’interno di una comunità. La domanda di fondo è: esistono ancora comunità o e possibile facilitare la creazione di uno spirito/coscienza comunitaria la dove non c’è?

    Il secondo aspetto riguarda l’impostazione stessa della pastorizia come monocultura.
    Credo che sia fondamentale progettare tale attività in maniera tale che non sia l’unica forma di utilizzazione dei suoli interessati. Questo la porterebbe facilmente alla condizione di transitorietà, verso l’abbandono o verso usi più redditizi o la relegherebbe alle zone più sfortunate ed impervie. Sarò più chiaro.
    Ritengo fondamentale progettare sistemi silvopastorali (all’interno del più ampio contenitore dei sistemi agroforestali) dove per silvo si intende una qualsiasi coltura perenne in grado garantire una produzione e di svilupparsi in sinergia con quella pastorale. Il pascolo sotto lariceto è uno storico e splendido esempio di alta montagna ma se ne possono immaginare molti altri e ben più redditizi sopratutto se non releghiamo la pastorizia agli ultimi bricchi sassosi.

    Se condividiamo queste considerazioni di quali strumenti, tecniche, buone pratiche, studi…dobbiamo avvalerci per fare in modo che non siano solamente utopie?
    Spero con queste parole di non aver dimostrato di essere un idealista ma piuttosto di aver portato nel ragionamento aspetti forse sin ora trascurati e che potrebbe valere la pena approfondire.

    Martino

    P.S. ci vediamo il 30 a Grugliasco!

    • grazie per le tue riflessioni!
      dopo questo post riflessivo/negativo, ho in mente di scriverne un altro “propositivo”, diciamo così! 🙂 così potremo continuare dialogo e scambio di idee, anche in vista del confronto a grugliasco il 30.
      a presto!

  3. ho visto in una trasmissione nella quale hanno usato la lana come isolante per il tetto ,poco costosa ,ignifuga,potrebbe essere una soluzione? forza tieni botta!

    • sì, è una realtà ed infatti negli ultimi anni per la maggior parte dei pastori che è riuscita a “far fuori la lana” credo la destinazione sia stata proprio quella. ma il prezzo a cui viene pagata al pastore non copre nemmeno i costi di tosatura…

  4. D,acordo con te – io scorraggio TUTTI quelli che mi vengono a trovare pensando di voler fare l,allevatore,o ancora di piu, il PASTORE. Le loro idee non combaciano mai con la realta…ne parliamo quando ci vediamo a fine mese

  5. eh si tutto giusto. 😦
    credo però ci siano prospettive nel piccolo, stanziale, orientato alla produzione per i circuiti locali ed i gruppi di acquisto solidali.
    per il resto la vedo dura come scrivi (e vivi) tu.
    chiaro che alla situazione attuale il formaggio è l’unico prodotto con resa ‘decente’. sarebbe bello che carne e lana riprendessero valori sostenibili, ma le produzioni di qualità e quantità che ci sono in giro (francia, nuova zelanda, romania, ecc..) non si fermeranno x qualche prurito autarchico di slow coldiretti e policanti vari.

    anche nel senso della creazione di comunità e di sistemi territoriali perenni si richiede una coscienza politico amministrativa che chi ce l’ha? i sindaci mah… le comunità montane rimah… i parchi rimahhh….
    paiono piuttosto tanti poltronai in attesa del megaprogetto da cui succhiare qualche spicciolo, piuttosto che gestori del territorio attenti o partecipi.
    tutto dove guardi è un gran cementificare, progettare, turistificare… mi pare che anche qui le speranze siano poche

    e poi, un’ultima considerazione.
    se qualche speranza c’è, bisognerebbe che iniziassimo a parlare apertamente di resistenza, e grazie a questa alchimia anche lessicale ed ideale trovare complicità e spunti.
    dico questo nel senso che assoggettandosi a tutte le leggi leggine leggione sul tema ‘pastorizia’ ed in genrale al sistema corrente (norme su costruzioni, lavoro, contributi, proprietà ecc) di speranza proprio non ce n’è.
    o si inizia a considerare l’illegalità come un valore necessario, o siamo destinati a scomparire. del resto, c’è un progetto visibile, di lunga durata, LEGALE e devastante di soppressione delle attività agricole di montagna e alta collina, della vita stessa in questi territori che son destinati al più a diventare ‘cool places’ per cittadini in cerca di svago o luogo di deposito rifiuti e produzione energetica.
    …e non parlo di illegalità di uccidere o di rubare, ma di dire apertamente si, io macello a casa gli agnelli, si io ho costruito una tettoia senza permessi, si tengo dieci pecore senza orecchino per venderle all’eliid, si mi aiuta mio fratello e non è segnato….

    insomma, SVEGLIARSI al posto di credere nei finti aiuti delle stesse istituzioni che da una parte ti danno la carotina della fiera o del miniprogetto e dall’altra ti randellano con la gestione ordinaria del potere.
    finchè si starà a braccetto delle istituzioni dove credete di andare? a fare filmini? al salone del gusto? bello ma non basta, e di lontano.
    si spendono più soldi in questi contentini di quello che si da per la manutenzione degli alpeggi (o altro), si aiutano piccoli e grandi burocrati ed organizzatori ma agli agricoltori cosa ne resta veramente?
    piuttosto di sedersi ai tavoli delle degustazioni e delle discussioni, sarebbe ora di ribaltarli, i tavoli e le discussioni, per mettere al centro ed in primis le necessità vere degli agricoltori, dei pastori, della popolazione tutta.

    utopicamente
    un pastore ribelle

    • caro pastore ribelle, condivido buona parte del tuo pensiero… 🙂
      per quello che riguarda la legalità, una volta avevo letto un’intervista ad un pastore (mi pare francese) dove questo affermava che le uniche leggi che un pastore può seguire sono quelle del tempo e delle stagioni. poi un conto è essere un fuorilegge, una di quelle “pecore nere” che con il loro comportamento danneggiano tutti gli altri pastori (lasciando in giro bestie morte, arrecando danni ai fondi privati, ecc ecc ecc), un altro è arrangiarsi tra una legge assurda e l’altra, perchè se proprio dovessi essere al 100% a norma di legge tante volte lasceresti perdere! (e citi esattamente tu quelle cose che si fanno per salvarsi, quelle ed altre, sappiamo tutti come stanno le cose)
      anche se personalmente coinvolta anche in quei “contentini” di cui parli… so bene che sono gocce nel mare e le belle idee non vengono ascoltate, si preferisce l’apparenza alla sostanza. non vale solo per la pastorizia, per l’agricoltura, ma per tante altre cose in Italia. basta vedere come TUTTI i politici e politicanti siano più preoccupati della loro cadrega che non della situazione in cui si trovano gli italiani 😦

      • eh si immagino che nel tuo percorso -peraltro interessante eh, e spero gratificante personalmente x te- tu abbia avuto a che sentirne di ‘promesse’ ‘impegni’ ‘interessamenti’ politico amministrativi, che poi si risolvono in aria fritta.
        x me al di là delle scelte personali, la vedo una questione di metodo e di dialettica: come si fa a credere che un assessore (che so, uno a caso) che prende in un mese quello che un pastore forse guadagna in anno, che solo per spostarsi a fare una conferenza gli dan il rimborso kilometrico, dicevo come si fa a credere che quello possa risolvere qualcosa?
        e quando si parla di editori, ed organizzatori, che han tante buone idee ma poi in fin dei conti fan girare solo dei gran soldi per loro e gli amici loro… son questi che aiuteranno?
        non credo.
        ‘aiutati che il ciel ti aiuta’, smettessimo di delegare sempre a qualcun altro, qualcuno più in alto, le nostre istanze, forse qualche risultato in più si otterrebbe.
        esempio forse parziale: nelle creazioni di filiera locale, si può parlare con i ‘clienti’, si possono anche alzare ragionevolmente i prezzi, si possono anche ottenere microprestiti ‘di consumo’, avere sicurezze ‘di mercato futuro’, si possono anche fare scambi di merci e di favori…. ma solo conoscendo direttamente, facendosi conoscere dalle persone. invece facendo i ‘presidi’ e le fiere si ottiene più che altro il valore per i turisti, l’accettazione di un plus non motivato ma ‘di tendenza’ che lascia poi il tempo che trova.
        la prossimità è l’unica tutela che possiamo avere, il creare legami di sostentamento (non dimentichiamo che produciamo cibo, sempre più violentemente bene primario, per quanto dimenticato e bistrattato da tanti) poi sta a noi cercare di organizzare i contatti in maniera che siano efficaci, che ci servano a qualcosa di pratico (che so, ad esempio il mio dentista lo pago in salami 🙂 )
        diciamo però chiaramente che questa non è la strada della subaordinazione delle nostre attività e delle nostre vite alla turisticità, alla tipicità, alla valorizzazione slowfooddiana. è piuttosto la strada dell’integrazione dei nostri saperi e produzioni nella vita sociale, il nostro contributo con il quale dovremmo bilanciare il contributo di altri, con competenze e professioni diverse.
        che posso anche vendere una pecora a 200euro perchè è presidio o tipica, ma se poi il primo geometra da cui vado me ne chiede 2000 per un foglio serve a poco.
        non so se mi spiego, trovo che manchi sempre un po’ una visione generale nei discorsi sull’agricoltura. l’agricoltura, la pastorizia, le zone periferiche, si salvano se si salva la società.

      • uhm… che la burocrazia sia cara vale per il pastore come per tanti altri.
        pensare di tornare al baratto è utopico, anche se può “funzionare” in delle piccole micro-comunità.
        io non sono in grado di parlare di riorganizzazione dell’intera società/economia 🙂
        puntare sul tipico e sulla “turisticità” come la chiami tu non è sbagliato, secondo me è una delle strade. ma non l’unica e sicuramente non la panacea per tutto, soprattutto quando le problematiche sono così grandi.
        comunque, puntando su quello ci sono certe realtà in cui le cose vanno un po’ meglio che altrove

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