L’ultimo pastore: intervista a Marco Bonfanti

Ci voleva “L’ultimo pastore” di Marco Bonfanti per far sì che tornassi al cinema dopo chissà quanti anni, per di più a Torino (chi mi conosce sa quanto poco io sia cittadina!) ed alle 9:30 di mattina. Prima di passare alla mia recensione di questo film, che ha riscosso un ottimo successo di pubblico e di critica durante il Torino Film Festival, in attesa anche del verdetto della giuria, oggi vi propongo una mia intervista al regista. Ho goduto del privilegio di intervistarlo direttamente (via internet) dal momento che, tempo fa, all’inizio del “progetto” che ha portato al film, Marco mi aveva contattata per chiedermi informazioni sul pascolo vagante.

Come nasce questa idea? L’idea del film nasce a seguito di una conversazione con un professore della Bocconi che, essendo un bravo ciclista, in uno dei suoi pomeriggi ha incontrato un maxi gregge di pecore lungo il naviglio a Milano. Mi sono illuminato e ho cercato chi avesse tanto ardire di portare ancora le pecore fin dentro Milano. Dopo mesi di peregrinare, ho incontrato Renato; e dopo altrettanti mesi faticosi, ho rotto la sua diffidenza: ha accettato solo perché si trattava di una fiaba.

Conoscevi già il mondo della pastorizia nomade? Non conoscevo il mondo della pastorizia nomade e, se non ci fosse stato il tuo blog, forse non ne saprei nulla neppure oggi. Le mie informazioni sono poche e rudimentali.

Hai incontrato anche altri pastori vaganti oltre a Renato? Nella mia vita, sì, certo; a Milano no, soltanto lui e con grande fatica, perché è molto bravo ad occultarsi lungo le arterie delle provinciali, delle superstrade, dei cavalcavia etc.

Pensi che questo mestiere sia destinato a scomparire e che quelli attuali siano gli ultimi pastori per sempre… o si trasformerà e continuerà ad esistere? Non credo sia un mestiere destinato a sparire, credo piuttosto sparirà con l’estinguersi del pianeta. L’uomo nasce allevatore nomade e il suo cammino ci ha condotto per milioni di anni sin qui. Come le religioni, certamente, sarà costretto di volta in volta a modificarsi e ad adattarsi ai tempi per sopravvivere dignitosamente. Tuttavia, questo non significa che sopravviverà ovunque. Avrà sempre più zone franche, più ghettizzazioni, riserve indiane, perché il terreno sul quale si edifica va perduto per sempre; e le costruzioni aumentano, inesorabilmente. Nelle grandi città, con la perdita del contatto naturale, si è perduta atavicamente gran parte dell’umanità. Lì, dove c’è disumanizzazione, alienazione, la pastorizia non tornerà mai più.

Quali benefici potrà eventualmente portare alla pastorizia nomade un film come L’ultimo pastore? Grazie al film sta già aumentando in maniera sproporzionata la curiosità nei confronti della pastorizia. La Stampa ieri (giovedì, ndA) parlava di pastori, proprio grazie al film. Questo credo sia dovuto al fatto che “L’Ultimo Pastore” fa ridere, piangere, emozionare, avvincere, commuovere come un film di finzione, senza annoiare come fanno la maggior parte dei documentari oggi: lenti, basati solo sulle immagini, specifici, quasi tecnici. Per pochi, insomma.

Non è un documentario, ma un film, quasi una fiaba. Credi che il pubblico potrà avvicinarsi di più al mondo della pastorizia dopo averlo visto, oppure lo riterrà comunque un mondo a parte? Potrà accendere l’attenzione su qualcosa che, nei grandi centri urbani, crediamo non esista più.

Il protagonista recita se stesso: c’è una parte di finzione ed una parte di realtà o i due elementi sono indistinguibili? Il protagonista è se stesso, così come gli altri personaggi, ma è inserito in una trama, in questo viaggio stralunato per giungere sin ai bambini della metropoli, che non sanno nulla. Con grande tristezza per tutti. Io non faccio informazione, o televisione. Faccio opere di poesia, e perciò sono tenuto a raccontare la realtà come io la vedo o come io vorrei – mi immagini che sia.

Che impressione hai avuto del mondo della pastorizia nomade in generale? Un mondo estremamente variegato, affascinante, contro il tempo, che ci può anche insegnare la poesia e a stare meglio con noi stessi. Un’idea di mondo, di libertà, di sogni diversa. Oggi scarsamente accettata.

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