La passione mi è stata trasmessa dal territorio

Ancora una testimonianza di un allevatore di capre (ma non solo… non solo capre e non solo allevatore!) da altre parti d’Italia rispetto a quelle che sono solita frequentare. Purtroppo l’amico Rocco non mi ha mandato immagini dei suoi animali e della sua terra, quindi mi limiterò a riportare le sue parole, con qualche link per approfondimenti.

Vivo a Conversano, sono laureato in Scienze Naturali e sono un ricercatore precario all’università. Il mio allevamento è ad Altamura nell’area dell’Alta Murgia, Parco Nazionale dell’Alta Murgia – Puglia. Ho un allevamento di 150 capre di razza garganica. Questa razza è minacciata di estinzione e meglio si adatta all’habitat che caratterizza l’azienda, dove sono presenti su una superficie di 200 ha pascoli arborati e cespugliati.
Ad un certo punto ho cominciato ad allevare pecore di razza Gentile di Puglia e mancavano alcune capre, il gregge sembrava “lento”, ho acquistato quindi una decina di capre di razza jonica. La passione mi è stata trasmessa, e non tramandata, dal territorio, dalla storia del paesaggio e della gente che vive con gli animali, dalla cultura; inoltre, occupandomi di conservazione delle specie selvatiche e degli habitat riconosco nell’attività pastorale un ruolo chiave per il mantenimento i elevati livelli di biodiversità sempre se l’attività è oculata….
Allevo anche pecore di razza Gentile di Puglia e Altamurana, vacche podoliche allo stato brado.

Ho scelto le capre per diffondere un prodotto eccezionale come il latte e i suoi derivati, ricco di proprietà nobili e poi perché utilizzano a pieno l’habitat a loro disponibile.
Della capra mi piace la sua indipendenza e quel comportamento selvatico che io accomuno al camoscio. Non mi piace il fatto che sale sui muri di pietra a secco o su vecchie strutture di pietra facendole crollare. E’ un animale molto intelligente, ma è anche una preda.
Momenti difficili ce ne sono e ce ne saranno, penso che il momento più difficile è quando ti trovi di fronte ad un individuo deceduto o che non sta bene e devi fare di tutto per capire ed intervenire…

Quando un qualcosa vuole tempo affinché si realizzi, dalle mie parti si dice: “tempo e frasche (rami con foglie) vuole la capra”, anche la capra per partorire e fare il latte vuole il suo tempo.
Qui si produce yogurt e cacio ricotta. Il latte lo caseifica un casaro venendo in azienda 2-3 volte alla settimana. Vendo soprattutto tramite gruppi GAS e amici; l’azienda ha una convenzione con il dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Bari i cui ricercatori studiano i rapporti/interazioni tra pascolo e biodiversità descrivendo lo stato di conservazione e in particolare l’azienda cofinanzia il monitoraggio sul lupo, pertanto i prodotti si vendono perchè se acquisti questo prodotto contribuisci e partecipi allo studio e alla conservazione del lupo. Questa storia sta avendo un grande successo:W le capre e W i lupi e l’intera biodiversità legata ai sistemi pastorali.

C’è un operaio, il fieno lo compriamo. Ogni giorno fino al tramonto gli animali sono portati al pascolo e seguiti. Le capre, almeno dalla mia esperienza e rapporto, rispondono molto bene ai “comandi” durante il pascolamento, questo è molto importante soprattutto in un territorio dove ci sono altri confinanti che pascolano o coltivano. Le capre sono una risorsa per il territorio, ma sono un problema quando non gestisci il gregge non preoccupandoti dei cicli vegetazionali: il sovrapascolo è un problema per esempio.
Oggi ho l’impressione che oggi il rapporto con la campagna in generale tenda ad essere valorizzato ed diffuso. In generale però odio l’umanizzazione eccessiva degli animali. Gli animali vanno gestiti. Nella mia zona di solito le capre sono miste alle pecore e con numero molto inferiore (su 500 pecore ci sono 30 capre). Il mio allevamento è l’unico in zona ad avere 150 animali. Attualmente non è la mia prima fonte di reddito, ma spero un giorno di sì, mi piacerebbe dedicare ancora molto più tempo.

Perchè anche le battaglie delle capre sono importanti

Mentre si avvicina il prossimo appuntamento per gli appassionati (28 giugno a Lemie, TO), io vi devo ancora raccontare la battaglia, o meglio, il confronto delle capre e la rassegna che si sono tenuti a Pessinetto, sempre nelle Valli di Lanzo, a fine maggio.

Per chi volesse andare a Lemie, ecco il programma. Io sarò presente il venerdì sera, 26 giugno, alle ore 21:00, per presentare il mio libro fotografico “Pascolo vagante 2004-2014”, presso il Bar della Pace. Vi aspetto numerosi, così come spero siano numerosi i partecipanti alla rassegna/confronto della domenica 28.

A Pessinetto, nonostante il meteo non ottimale, c’era una buona partecipazione. Al mattino si era tenuta la rassegna, molti animali partecipavano ad entrambe le manifestazioni, sia la mostra per la “bellezza”, sia la battaglia del pomeriggio. La maggior parte dei partecipanti era locale, come spesso accade in questi eventi. Partecipare è un impegno e anche un costo, per chi deve prendere un mezzo per il trasporto degli animali.

Valli di Lanzo, non potevano mancare le capre fiurinà. Viene considerata razza, si è cercato di recuperarla e valorizzarla, anche se molti semplicemente la considerano una delle varianti di colore del mantello delle valdostane. Comunque vogliate considerarle, sono un bel vedere e una passione nella passione per molti allevatori di capre.

C’erano numerosi begli esemplari, in tutte le diverse varianti di mantello della valdostana. Abbiamo già parlato varie volte di come queste manifestazioni non vengano comprese all’esterno del mondo zootecnico. Sappiamo come non siano cruente e come l’attitudine al confrontarsi sia un qualcosa di spontaneo, assolutamente naturale.

Talmente naturale che le “battaglie” iniziano già fuori campo! Perchè portare le capre a battersi in questo contesto? Perchè da sempre l’uomo cerca dei momenti di incontro, di spettacolo, di confronto. C’è lo sport praticato in prima persona e c’è la condivisione delle passioni, come può essere quella di allevare e mettere a confronto i frutti del proprio lavoro. Valutare la bontà di un formaggio, la quantità di latte prodotto da un singolo animale, la bellezza e le caratteristiche delle tue bestie.

Le battaglie delle capre hanno sicuramente un pregio: mantengono vivo il territorio. Come? Molti di coloro che allevano questi animali non sono allevatori di professione. Queste capre sono un hobby (impegnativo e costoso, tra l’altro), un di più. Di mestiere fai altro, non vivi con 10, 15 capre. Qualcuno ha anche bovini, non tutti gli appassionati sono hobbisti, ma ciò che intendevo dire che è che chi alleva queste capre le pascola, fa fieno, quindi si prende cura di loro e, contemporaneamente, di piccole fette di territorio che altrimenti sarebbero abbandonate.

Allevamento e territorio sono sempre strettamente connessi, specialmente se l’allevamento non è intensivo (in quel caso l’effetto sul territorio spesso diventa nefasto). Allevare queste capre vuol quindi dire pascoli, prati sfalciati (il più delle volte in aree marginali) e anche prodotti (carne, latticini) destinati ad un piccolo consumo locale.

Ben vengano queste manifestazioni, che riuniscono gli appassionati e attirano sul territorio anche qualche turista, qualche curioso. Le battaglie non sono cruente, anzi… a volte non succede niente e gli animali nemmeno si battono. La gente passa, guarda, qualcuno si ferma, altri vanno oltre, intorno alle transenne restano quelli che sono coinvolti nell’evento, i più appassionati. Ascolto i commenti dei visitatori di passaggio, molti non capiscono, ma ogni sport, ogni passione ha il suo giro di adepti!!

Era il paese della frutta

Le mie radici non sono legate all’allevamento, alla pastorizia. Le mie radici sono tra gli alberi da frutta. Il mio era il paese dei frutasè, dei commercianti di frutta, specialmente mele. E le mele del mio comune, Cumiana, erano famose ed esportate in tutto il mondo (non è un’esagerazione, accadeva davvero così, ben prima dell’epoca della globalizzazione). Oggi, da queste parti, sono diventati altri i “paesi della frutta”, perchè collocati in aree pianeggianti, più facili da gestire con i macchinari e le nuove tecniche colturali.

In collina, quassù, i frutteti vengono abbandonati, eradicati, e la gente ti dice di portare le pecore a pascolare l’erba cresciuta al loro posto. Bella erba grassa, il terreno è buono. Dopo aver ben mangiato, con il sole del mezzogiorno le pecore si mettono “a mucchio”.

Da queste parti, dove un tempo c’erano frutteti ovunque, oggi gli alberi da frutto sono quasi solo più ad uso famigliare. 10-15-20 anni fa la situazione era ancora diversa, ma oggi… E il gregge passa tra i pochi piantamenti residui, qualche vigna, vecchi ciliegi in fiore.

Anche i kiwi sono stati tolti, anche qui tanta bella erba da pascolare. Si cerca il proprietario, si ottiene il permesso e si pascola anche questo ex frutteto dove, da poco, sono state eradicate tutte le piante, c’è ancora un mucchio di rami secchi in un angolo.

Dove resistono i frutteti, si vedono i segni dei passaggi dei caprioli. Gli alberi già più grossi si salvano, fare un piantamento nuovo invece richiede sistemi di protezione adeguati. Al Pastore viene detto di pascolare anche in mezzo alle piantine di un frutteto “non riuscito”, quel poco che si è salvato mostra ben evidenti i segni delle brucature e degli scortecciamenti dei selvatici.

Andate pure anche di là, dove ci sono i peschi… Tanto li tolgo!“. E i due anziani accompagnano il Pastore per mostrargli tutto dove pascolare. Il pescheto abbandonato, l’incolto (dove le patate non le mettono più, i cinghiali distruggevano tutto), il frutteto che non è più stato potato.

Nel giorno di pioggia si va al pascolo anche nei boschi, ma ci si rende conto che anche queste sono zone che erano coltivate fino a qualche decina di anni fa. Qui una vasca per fare il verderame, là un muretto, lassù dei vecchi meli che ancora fioriscono, tra i rovi. Il bosco però sta colonizzando e cancellando tutto.

Fa un effetto strano “buttare” le pecore lì in mezzo. I meli, non potati, sono delle nuvole di fiori. Nonostante la brutta giornata umida, c’è un lieve profumo nell’aria. Le pecore brucano l’erba, ma poi alzano la testa e mangiano anche qualche fiore, qualche foglia tenera. Penso a quello che diceva mio nonno, originario di queste borgate, a riguardo delle mele di collina, ben più dolci, ben più gustose di quelle della pianura.

Quando il territorio vuole le pecore

Mentre ero nel Nord Est ho fatto visita anche ad un amico “pastore per hobby”. Ci conosciamo da molti anni, i primi contatti sono iniziati via internet, poi ci sono stati vari incontri anche qui in Piemonte. Adesso questo amico affianca, alla passione per le pecore, quella per la tosatura. Ma quest’anno c’è stata anche un’altra novità.

In passato c’erano stati dei momenti in cui aveva addirittura temuto di dover dar via le pecore, visto che i suoi pascoli venivano “soffocati” dall’espansione dei vigneti. Quest’anno invece si trova addirittura a pensare all’esigenza di avere più pecore visto che le sue non sono sufficienti a brucare tutta l’erba che avrebbe a disposizione. In primavera infatti per la prima volta ha portato in “alpeggio” il suo gregge. Non un alpeggio come lo intendiamo qui, ma comunque pascoli a mezza quota, pascoli abbandonati, dove i proprietari hanno piacere che gli animali bruchino e facciano pulizia. Sono appezzamenti particolari tra i boschi, pascoli circondati da muretti, ma soprattutto reti fisse.

Loris così non ha avuto che da portare lì il suo gregge (non è lontano da casa sua) e spostarlo via via di pezzo in pezzo, ripascolando anche più volte gli stessi appezzamenti grazie al clima piovoso di quest’estate. Forse con una stagione “normale” la siccità si sarebbe fatta sentire, visto anche il terreno calcareo, lo strato non così profondo di terra sopra al suolo di sassi bianchi e grigi che emergono qua e là. Tutte le mattine si recava dal gregge prima di andare al lavoro, per controllare che fosse tutto a posto. “Erba ne avrei ancora, ma quando cambiano l’ora devo portarle via, perchè altrimenti è troppo buio, la mattina. Altrimenti qui starebbero ancora bene…

Soprattutto ci sarebbero numerosi vicini, confinanti, proprietari di appezzamenti più a valle che vorrebbero che nelle prossime settimane e poi anche la prossima primavera/estate, il gregge “ripulisse” i loro terreni. Ma le pecore sono poche, per Loris questa è una passione/hobby. “Tenerne di più, ma poi? Non ho posto sufficiente per l’inverno… e poi ho un lavoro che non posso lasciare. Con 50-60 pecore non ci vivo!“. E’ bello vedere come qui il territorio veda con gratitudine e gioia le pecore mentre, pochi chilometri più a valle, nella pianura, ci siano numerosi comuni letteralmente tappezzati dai cartelli di divieto di pascolo. “Per colpa di qualcuno ci rimettono tutti, perchè da queste parti c’erano pastori che passavano anche un mese o più in quei comuni, con il permesso dei proprietari e senza fare danni.

Vorrei parlarvi…

Scusate l’assenza e perdonate in anticipo la scarsa, forse scarsissima presenza della prossima settimana, dovuta ad un insieme di impegni, imprevisti ed ordinaria amministrazione. Per gli amici liguri, raccomando fin da ora di non mancare venerdì prossimo, 29 marzo, a San Remo, ore 17:00, presso la Biblioteca, per la presentazione di “Di questo lavoro mi piace tutto”.

Bene, in questi giorni avrei voluto parlarvi del colpo di coda dell’inverno, che ha lasciato a terra neve fradicia che si è sciolta in fretta, persino troppo in fretta, complice un bel sole caldo e, ahimè, giornate di vento che hanno bloccato la crescita dell’erba, già “frastornata” dai troppi sbalzi di temperatura, ora sole caldo, ora brina, ora neve, ora tepore.

La necessità però di andare a dare una mano, specialmente quando c’era da spostare il gregge, mi ha spesso tenuta lontana dalla scrivania e dal computer. Poi, si sa com’è, uno parte ad un’ora, ma è illusione sbrigarsela in poco tempo, perchè quando sei con gli animali c’è sempre l’imprevisto dietro l’angolo, rappresentato da più nascite contemporaneamente, o un cucciolo che scompare, o una pecora che ha mangiato qualche pianta tossica in un mucchio di rami gettati al bordo di un bosco (potature di un giardino) e presenta sintomi di avvelenamento…

Vorrei parlarvi dell’abbandono che caratterizza quei posti dove la gente abita, senza vivere davvero il territorio. Case con giardini “artificiali” ben curati, ma appena fuori tracce di colture antiche che vanno a perdere, ex prati ormai invasi dai rovi o dal bosco, vigneti confusi in un viluppo di spine, liane, cespugli. Che differenza con altri luoghi poco lontani, dove il paese, la valle, non ha perso del tutto le sue connotazioni rurali e, soprattutto, di territorio dedicato all’allevamento!

Qui gli spazi sono rimasti pochi, i prati rimangono tali solo per “pietà” dei padroni, che faticosamente arrivano a trovare qualcuno che glieli tagli, a volte persino a pagamento. Che gioia quindi quando arriva il gregge! Perchè fa male al cuore vedere l’abbandono che avanza. Il bosco è bello, ma il paesaggio più gradevole è quello dove alberi e prati si alternano in un contrasto sempre diverso. Il prato è già verde quando il bosco è ancora spoglio, come oggi, in questo inizio di primavera timido e incerto.

Dove la gente ha cura degli spazi intorno alle case, l’erba è già più verde, più alta, complice anche l’esposizione favorevole al sole. “Vi avevo visti ieri dall’altra parte e volevo chiamarvi per dire di pascolare anche qui, avevo paura che non veniste… Almeno pulite tutto e non dobbiamo tagliare noi. E poi sono così belle da vedere…“, dice una signora anziana, memore di quando queste aree erano tutte utilizzate. Castagneti su ripiani ricavati grazie a muri in pietra, prati sfalciati, pascoli, campi, orti. Oggi al massimo hanno recuperato piccole porzioni di terra per piantare ulivi.

Vorrei parlarvi anche della premiazione del concorso fotografico Ri-scatti della Terra, organizzato dalla Regione Piemonte, che mi ha inaspettatamente vista vincere con la foto “Pascolo vagante in inverno”. C’erano anche altre immagini selezionate per la mostra tra le oltre 1300 partecipanti, che immortalavano la pastorizia o il pascolo vagante. E’ da illusi pensare che questo premio serva al pascolo vagante, però ho colto l’occasione per dire a tutti i presenti all’inaugurazione della mostra alla Reggia di Venaria che bisogna avere rispetto del duro lavoro del pastore. “Se incontrate un gregge lungo una strada, abbiate la cortesia di aspettare pazientemente senza suonare il clacson e senza cercare di infilarsi con l’auto tra le pecore!“.

Il sole e l’aria tiepida però sono durati poco e l’inizio di primavera ha portato giornate di cielo velato, aria nuovamente fredda e previsioni di pioggia. Nei prati, l’erba stenta a crescere, avrebbe bisogno soprattutto di sole e calore, anche di un po’ di umidità, visto che il vento ha praticamente annullato quella portata dalla pioggia.

Qua e là affiorano i segni di quando l’uomo curava davvero la terra: pietre di confine, muretti, ma basta guardare appena sotto al stradina sterrata che congiunge le borgate per capire come l’incuria ormai sia generale. Il fossatello non è più stato pulito e l’acqua scende ovunque, anche nella strada. In tempi abbastanza recenti qualcuno aveva messo delle canalette trasversali in legno per drenare, ma sono completamente chiuse dalla terra. Le borgate poi sono semi-deserte. Per trovare il padrone di una lista di erba verde tra una casa e il bosco ho suonato a 10 campanelli, senza che uscisse nessuno. Alla fine, da un balcone, si affaccia una donna: “Non abita qui, il padrone sta a Torino, non viene quasi mai… Una volta o due all’anno, ma fa tagliare l’erba da qualcuno d’estate, la lascia lì a marcire, quindi secondo me se passate con le pecore fate solo del bene…“.

Poi arriva la pioggia, all’inizio solo un’acquerugiola fine. Diverse pecore hanno partorito, così decidiamo di portarle nel prato all’interno della recinzione di una casa. Qualche ora dopo mi telefona la padrona per chiedermi se poteva dare il mio numero di telefono ad una signora che chiedeva come fare per avere un agnello per Pasqua… Quando questa mi telefonerà, ecco cosa mi dice: “E’ lei la padrona di quegli agnellini che ho visto nel tal posto? Volevo sapere se sono destinati alla strage di Pasqua…“. Ecco, di questo non avrei voluto parlare! Possibile che in un paese di campagna come quello in cui abito debba accadere questo? Possibile che non si capisca che un agnello nato da 4-5 ore non potrà essere macellato per Pasqua, che cade tra una settimana? Prima ho provato a spiegarglielo con le buone, poi ho capito che tanto non voleva capire e continuava a ripetermi gli stessi slogan. Avendo poco tempo da perdere, la cena sul fuoco e un agnellino scartato dalla mamma che aspettava il biberon, lo ho scortesemente attaccato il telefono dicendole che avevo altro di meglio da fare. Lo so che non si fa così, però a volte uno perde la pazienza!

Dopo la neve, aspettando la primavera

Viene quel momento in cui i giorni iniziano a scivolare via, arriva la primavera e già pensi a quando inizierai a spostarti verso la montagna. Solo qualche settimana fa eri ancora lì a preoccuparti per la neve, se poteva esserci il pericolo di dover fermare le pecore, e adesso invece già parli di alpeggio.

La neve, quella dell’ultima nevicata, alla fine è anche stata una benedizione per tanti motivi. Adesso la ricordi solo più come sfondo per le immagini e sembra quasi incredibile che, poco più di una settimana fa, affondavi con gli scarponi in tutta quella massa bianca.

Se n’è poi andata più velocemente di quanto era arrivata, lasciando quasi ovunque una leggera ombra verdina, quella dell’erba nuova che, grazie al terreno non gelato ed all’umidità, iniziava a germogliare. Persino i boschi iniziavano a tingersi di verde, a volte anche prima di certi prati.

C’era ancora qualche chiazza bianca al fondo di alcune conche più fredde, ma sui versanti esposti al sole qua e là le chiazze verdi attiravano le pecore come calamite. Tecnicamente è ancora inverno, ma ormai non ci sarà più da preoccuparsi per la neve. Per qualche pastore la stagione che sta terminando può quindi essere archiviata come buona, almeno dal punto di vista meteo. Per altre cose magari un po’ meno… ma ci si augura che la Pasqua imminente aiuti ad aggiustare un po’ i conti, visto che a Natale le vendite sono state davvero pessime.

La nuova erba fa capolino qua e là, il sole inizia ad essere tiepido, talvolta persino caldo, anche se il cielo spesso in questi giorni è velato. Dovrebbe piovere a breve e questo sarà insieme un bene ed un male. Un bene per far “muovere” tutta la vegetazione, un male per quei prati dove l’erba secca, una volta umida di pioggia, verrà rifiutata dagli animali.

Per fortuna che, tra l’uno e l’altro di quei prati magri quasi abbandonati, ci sono boschi ricchi di querce, con tante ghiande al suolo, tra le foglie. Le pecore ne sono ghiotte e ricavano dai frutti secchi un ottimo nutrimento energetico. Basta vedere come si “fermano” nel bosco, più che non in un prato di erba verde! Senti solo più il fruscio delle foglie ed il loro masticare soddisfatto.

Molti di quei prati hanno sì e no visto un unico taglio in tutto l’anno, dopo il passaggio del gregge la primavera precedente, ed adesso l’erba nuova è soffocata da tutto il secco. Territori che un tempo erano risorsa per la piccola economia locale oggi sono quasi abbandonati, tra case chiuse non più abitate e villette dove durante il giorno non resta nessuno. Spesso è difficile persino individuare i proprietari per chiedere il permesso di pascolare… Eppure meglio farlo, perchè potrebbe sempre saltar fuori qualcuno che si lamenta della “pulizia” operata dal gregge.

La filiera ovicaprina: risorsa e opportunità per il territorio?

Ho aggiunto un punto interrogativo al titolo del convegno tenutosi sabato scorso (2 marzo) presso la sede GAL di Villa Olanda (Luserna San Giovanni, TO). Proprio in Val Pellice, ad Angrogna, c’era un modo di dire in patois che, tradotto, recita: “Quando ti senti perso, attaccati al lanuto“, cioè alla pecora. La pecora come pecus, pecunia, la pecora davvero come risorsa ed opportunità. Ma oggi?

La sala del convegno era gremita, anche se gli allevatori non erano molti. Anzi, dei pur numerosi pastori della Val Pellice e/o dei loro famigliari, non c’era praticamente nessuno. Questo non per mancanza di interesse, bensì per mancanza di tempo, una delle problematiche di questa attività, cosa che influirà forse anche nella buona riuscita dei progetti proposti. Ma andiamo con ordine. Cerco di raccontarvi tutto quello che è stato detto, anche perchè so che molti dei potenziali destinatari del futuro bando GAL leggono queste pagine.

La presidente del GAL Giachero ha infatti spiegato che per fortuna ci sono ancora delle risorse (anche se il futuro del GAL è in parte legato alle ahimè quasi decadute Comunità Montane) e si vorrebbe investire sul settore dell’allevamento ovicaprino, proprio cercando di creare una filiera attiva ed operativa, favorendo le forme di associazione tra allevatori ed altri attori del territorio. “Ci sono risorse, ma manca la comunicazione e queste non vengono allocate presso chi potrebbe usufruirne“. Questo convegno serviva anche per ultimare la stesura del bando, sentite le varie voci degli operatori. E’ anche intervenuto Righero della Provincia, in sostituzione dell’assessore Balagna: “Il mondo è cambiato, non ci sono più le fabbriche a sostituire il reddito agricolo. Ci sarà un ritorno. La provincia di Torino detiene il 40% del patrimonio ovicaprino regionale“. Hanno poi parlato Chiabrando (Camera di Commercio) e Coucourde (Presidente CM).

Claudio Goia della CM ha illustrato l’alpeggio in tutte le sue sfaccettature, parlando anche dei contributi di cui possono già usufruire gli allevatori. Nel territorio Gal Escartons e Valli Valdesi monticano circa 48.000 capi, di cui 3.825 caprini e 26.470 ovini. Molte strutture d’alpe sono state adeguate negli ultimi anni e sono raggiungibili attraverso piste, anche se non tutte hanno però queste caratteristiche.

Da parte mia, ho parlato delle difficoltà attuali nel definire sostenibile la pastorizia del XXI secolo. Burocrazia, vincoli, spese, necessità di avere un numero di capi maggiore rispetto ad un tempo per poter sopravvivere, difficoltà nel reperire pascoli… Tutte le cose che racconto qui quotidianamente. Inoltre, la grande difficoltà nel vendere il prodotto carne, legata non solo alla crisi generale, ma a molteplici fattori, tra cui la non conoscenza della carne ovicaprina che vada oltre il consumo stagionale di agnelli e capretti.

Della necessità di valorizzare ha parlato anche Tallone dell’Istituto Lattiero Caseario di Moretta, CN, che ha presentato i principali formaggi a latte ovino e caprino, ma ha anche illustrato il progetto di trasformare il salumificio didattico recentemente realizzato in un punto di lavorazione conto terzi, legato soprattutto alla carne ovicaprina. L’intervento di Tallone si è alternato con quello di D’Aveni (Consorzio Produttori Agricoli Torino, COPAT), che ha fornito interessanti numeri sulla produzione ovicaprina nazionale. Credo che tutti siano rimasti molto colpiti nel sapere che nel 2010 sono stati importati 1.628.985 capi (animali vivi) in ambito UE e circa 27.000 tonnellate di carne (Nuova Zelanda e altri paesi). Regno Unito, Spagna, Francia e Romania mandano agnelli in Italia a prezzi inferiori rispetto a quelli nazionali (specie per la Romania e la Nuova Zelanda, parlando di prezzo della carne già macellata). L’Italia è l’unico paese dove il prezzo medio è sceso, ma si è registrata anche una netta flessione nel consumo (meno di 1kg pro capite/anno, tenendo conto che certe regioni come la Sardegna invece consumano 11kg pro capite/anno).

La pastorizia potrebbe diventare un punto di forza per le aree abbandonate“, ha affermato D’Aveni, spiegando anche come si potrebbe puntare sulla certificazione Halal (e Kosher), visto che la maggior parte del consumo di animali adulti non è rivolta al consumatore italiano. Vi sono però difficoltà normative e costi, quindi la strada immediata da seguire dovrebbe essere quella della valorizzazione locale della carne ovicaprina.

E’ poi stata la volta di Nigel Thompson di Biella The Wool Company, che ha illustrato le attività intraprese per il recupero e valorizzazione delle lane locali. Non solo il centro di raccolta della lana succida (lo scorso anno sono venuti a caricare la lana anche da queste parti… contattateli e ritireranno anche la vostra, cari amici pastori), ma anche gomitoli, fili e manufatti realizzati con lana biellese. Nigel ha proposto ai pastori una filiera che altrove funziona: far lavorare la lana e rivenderla presso il punto vendita aziendale: “C’è più gente di quella che pensate che ama sferruzzare…“. Forse sì, ma il problema è che la gran parte dei pastori locali non ha un punto vendita aziendale (figuriamoci poi i vaganti!) e chi ha grandi quantitativi di lana da smaltire annualmente difficilmente se la sentirebbe di osare un investimento del genere, senza certezze di riuscire poi a vendere i gomitoli.

A questo punto potremmo dire: “Bene, tante belle parole, ma adesso?“. Giachero sostiene che: “…bisogna aver voglia di fare!“, ma io mi permetto qui di fare un piccolo appunto. Alla maggior parte dei pastori di oggi non manca la voglia di fare, ma mancano due risorse fondamentali: il tempo e la manodopera. Il pastore di oggi è coinvolto dal gregge per 365 giorni all’anno, quasi 24 ore su 24, tant’è vero che spesso si trova a “trascurare” tutto ciò che non è strettamente connesso alla cura del gregge. Per occuparsi di progetti di valorizzazione occorrerebbe o una persona quasi appositamente dedicata all’interno dell’azienda, o avere un piccolo gregge per poter anche diversificare le produzioni. Ma chi ha oggi un piccolo gregge letteralmente boccheggia per sopravvivere, a meno che già lo affianchi ad altre attività lavorative.

Il bando GAL, di prossima pubblicazione, verterà su questi punti, enunciati da Giachero: “Creazione di una filiera, lavorare in gruppo, valorizzare tutto il settore ovicaprino, stipulare un accordo minimo tra due imprese, un allevatore e uno o più soggetti…“. Grazie alla presenza di Giaj del Museo del Gusto, si è parlato di coinvolgere concretamente anche i ristoratori, elemento fondamentale della filiera per quanto concerne i primi passi nella valorizzazione della carne, ed i media.

In rappresentanza della Regione Piemonte e dell’Assessore Ravello, ha parlato l’ex Assessore alla Montagna Vaglio, che ha lodato le iniziative di valorizzazione già intraprese in passato sul territorio regionale e che hanno portato a buoni riscontri, come l’esempio della pecora sambucana e della capra di Roccaverano, con le relative produzioni. “Ci sono state operazioni di sostegno che hanno dato dei risultati ed è stato fondamentale il ruolo delle Comunità Montane, quelle stesse CM che verranno liquidate entro fine mese. La politica, anche nella recente campagna elettorale, ha parlato di problemi della cultura urbana, metropolitana, non di quella rurale o montana. Anche il problema delle predazioni viene visto con quest’ottica. Uno dei primi handicap per le azienda agricole è la burocrazia, bisogna confrontarsi con la UE per ridurre la burocrazia.

E adesso? Presto sul sito del GAL uscirà il bando, vedremo quel che si riuscirà a fare. L’auspicio è che davvero la filiera ovicaprina torni ad essere risorsa ed opportunità per il territorio… Sul sito dovrebbero anche essere a breve disponibili gli atti del convegno, con le presentazioni presentate dai relatori.

Il paesaggio

Vorrei parlarvi di pecore e paesaggio. In fondo lo faccio sempre, anche se non lo dico espressamente quasi mai… Vorrei ribadire come anche le pecore “fanno” il paesaggio, ma questo è vero laddove l’uomo non interviene troppo pesantemente. C’è ancora un paesaggio strettamente connesso all’allevamento ovino transumante, in Francia: là è riconosciuto e tutelato. Vorrei sapere cosa ne pensano gli amici dal Centro, dal Sud e dalle Isole, se da loro è riconosciuto il “paesaggio ovino”.

Io qui il paesaggio lo vedo violentare sempre di più. Mi domando se esista (e soprattutto come venga applicata) una certa pianificazione territoriale. Resto sempre più sconvolta dai “parchi fotovoltaici” che stanno invadendo vaste aree del nostro territorio. Abbiamo ettari ed ettari di superfici ormai “perse”, degradate, tetti ed aree asfaltate che potrebbero essere coperti, ed invece l’energia pulita va a distruggere paesaggi e persino a sottrarre superfici agricole e/o pastorali.

L’altro giorno il Monviso era uno spettacolo, visto dalla pianura Cuneese, ma che dire di uno dei tanti territori che non producono più erba, fieno, grano, mais, ma energia? Per me questa non è più energia pulita, così come non lo è quella dei biocarburanti prodotti da coltivazioni che, per ottenerle, consumano forse più energia di quello che producono… e continuano a sottrarre spazi all’agricoltura vera, inflazionando il mercato sia dei prodotti, sia dei terreni. Vedete? Non parlo direttamente di pecore, ma magari lì c’era un prato dove le pecore potevano pascolare… Negli Stati Uniti so che fanno fare la manutenzione dei parchi fotovoltaici alle greggi, ma mi sa che qui sarebbe un’utopia proporlo.

Sempre parlando di paesaggio, volevo tornare per un momento a quei container portati in alpeggio per dare almeno un paio di metri quadrati per un letto all’asciutto ai pastori in situazioni particolarmente critiche. Se vi ricordate, qui vi ho mostrato la loro “transumanza”, riportati a valle per non deturpare il paesaggio. Certo, belli non erano, comodi nemmeno (torridi di giorno, tanto da non poter conservare nulla di alimentare al loro interno se non la pasta e poco altro, gelidi ed umidi di notte), ma almeno dentro non pioveva e non ti passavano i topi in faccia. Potevi tenere lì i vestiti, il ricambio per quando alla sera eri fradicio. Si poteva mascherarli con le pietre, si potevano fare mille cose, e invece nel caso illustrato dalla foto il Comune ha preteso la loro rimozione e promesso (con tanto di articoli sui giornali locali) una baita nuova per il futuro.

Ormai lassù c’è la neve. Chissà se la baita vecchia reggerà ancora? E poi sarà ancora peggio per i pastori tornare a condividere lo spazio con i topi e le gocce d’acqua che cadono ora sul collo, ora sui piedi. I piccoli passi in avanti sono apprezzati, quelli indietro sono spiacevoli ed amari. Ci si chiede perchè si debba fare una vita del genere, tutti quei sacrifici, sentire promesse e parole e poi non ottenere nulla. Per l’impatto ambientale, certo. Qualcuno mi ha raccontato che il container gli è stato negato del tutto (altre valli, ma sempre in Piemonte), per il medesimo motivo.

(da giorgiorossi.net)

Ma perchè un bivacco non produce impatto? Usiamo lo stesso peso per tutti, tuteliamo al 100% il paesaggio sempre ed investiamo nelle strutture in quota, che siano ricovero temporaneo per turisti ed alpinisti, che siano baite per margari e pastori. Inseriamole nel paesaggio, costruiamole secondo le tipologie tradizionali. Non serve tanto, una stanza, uno spazio per cucinare, un bagno, poi a quelle quote ci si adatta. Basta lo stretto indispensabile, il resto è quasi un lusso. Ma chi fa quel mestiere deve poter vivere come un uomo. Poter accendere una stufa per asciugarsi, scaldarsi e cucinare. Potersi lavare. Spendiamo qualche contributo per questo, se vogliamo mantenere viva la montagna!

Forse ho divagato, ma guardando le montagne innevate l’altro giorno e l’impatto di quei pannelli ho pensato alle tante contraddizioni del mondo in cui viviamo, alle orrende architetture di certe stazioni sciistiche in quota, ed all’impatto ambientale di quel container che sicuramente nel 2012 non sarà sostituito da una baita nuova.